Another time, another place

Sai, credo che le città abbiano una memoria. Noi forse abbiamo dimenticato, ma loro ricordano i nostri visi, le nostre parole, i passi consumati in tutte le vie. Tornare qui, allora, è cercare ad ogni angolo quello che eravamo, cercare di rivedersi, di rivederti. C’eravamo arrivati, questo non puoi averlo scordato, ne sono sicuro, con un treno davvero troppo lento per tutti i chilometri che ci aspettavano. Un treno su cui avevamo trovato posto a fatica, con i nostri zaini in spalla e i nostri vent’anni ancora tutti da spendere. Allora c’erano ancora le frontiere e doganieri seri e compunti. Ansiosi di esaminare passaporti e bagagli, non sia mai che potessero contenere cose vietate. Vietate in quel paese che, giusto proprio allora usciva da un economia programmata da piani quinquennali e dalle code ai negozi. A noi non hanno chiesto nulla, però. Era chiaro persino a loro che l’unica cosa che potevamo contrabbandare era solo la nostra voglia di stare insieme, noi e solo noi.

Siamo arrivati che era ormai notte, notte in una città a noi sconosciuta, ancora. Il cambia valuta, banconote colorate di cui ancora non conoscevamo il valore, un panino, il taxi. E la casa che avevamo affittato, fidandoci della parola di un amico. Non così bella come ce l’eravamo immaginata, troppo piccola, troppo distante dal centro. Tu non hai voluto dormire, in quel grande letto di legno che occupava praticamente tutto l’appartamento. Ci siamo distesi vicini, sul pavimento, sui sacchi a pelo che ci eravamo portati per ogni evenienza. E poi il sonno, fino al mattino.

E il giorno dopo, appunto, alla ricerca di una nuova sistemazione, ancora con gli zaini sulle spalle. Fu un tassista, a darci la dritta giusta, inviandoci da una signora che lui chiamava zia. Che probabilmente non era nemmeno sua parente, ma che ci mise subito a disposizione tre piccole stanze nella città vecchia. Tu ne eri entusiasta, ricordo. Di quei mobili laccati azzurri, forse lì ancora dagli anni 50, dai ritratti di soldati e tranvieri appesi al muro, delle due finestre che si aprivano sulla piazza. La città, adesso, era veramente nostra. Non mi ero preparato un granché, su quello che avremmo dovuto vedere, visitare. Del resto non c’era bisogno di cercare, di leggere guide, di chiedere. Ogni via, ogni angolo sembrava avere un segreto da scoprire, meritava una sosta, parole tra di noi. Le scritte dei negozi, così difficili da decifrare, tanto che non riuscivamo a capire cosa fosse realmente in vendita. Le birrerie, con i piccoli tavoli sulla via, dove raramente tu trovavi qualcosa che ti piacesse, mentre io mi rimpinzavo ogni volta. E le librerie, i dischi di musica classica così a buon mercato, le pasticcerie, i mercati, i tram con i manovratori in divisa, i musicisti di strada.

Eri felice. Come una bambina correvi sempre avanti, mi prendevi per mano, mi trascinavi. Guarda questo, dai andiamo a vedere quello, corri dai! Io ti seguivo, senza capire che quello che veramente ti faceva sorridere, ti faceva fare tutti quei discorsi, ti illuminava, eravamo noi. Che cominciavamo a conoscerci. Tu ed io, che giravamo senza meta, senza nessuna pretesa, se non quella di guardare insieme tutto quello che ci stava intorno. Abbiamo visto cattedrali dove sono stati incoronati imperatori, quadri di pittori che hanno attraversato e superato i secoli, statue e mausolei di eroi, orologi che mostravano il cammino delle stelle. Ma nulla di tutto questo valeva, poteva valere, le nostre sere. Quando tu ed io guardavamo quella che era diventata la nostra città da una finestra. Quando anch’io, finalmente, riuscivo a capirti, a capire noi. Non non avrei voluto mai andare via,  avrei voluto, invece, ogni sera, ritrovarci qui. Per sentirti raccontare, per raccontare anch’io.

Questa città, la nostra città, sai, è cambiata. Le librerie, adesso, sono diventate fast food, negozi high tech. Le insegne sono ora in inglese, e le code le puoi trovare solo fuori dal caffè che frequentava Kafka. La sinagoga è ancora lì, ma vicino stanno costruendo un centro commerciale. E poi casinò, gelaterie, ristoranti italiani, moda in franchising, sexy shop. Non la riconosceresti più. Ma io continuo a pensare che da qualche parte, in qualche via, in qualche angolo, proprio lì, noi stiamo ancora chiacchierando

Polaroid

Me ne accorgo soltanto oggi. E’ tanto tempo che non riesco a scrivere, a mettere insieme qualche parola, qualche frase. Per raccontare quel che succede, anzi, quello che mi succede. Scrivere, ho sempre pensato, è un po’ come sviluppare una pellicola. Si, lo so che adesso non si usa più. Ci sono le macchine fotografiche digitali, gli smartphone. Puoi fare tutte le foto che vuoi, rivederle subito, cancellarle se non ti piacciono, farne delle altre. Ma a me piace pensare al vecchio procedimento. Ti guardi attorno, metti a fuoco, scatti. E poi ancora, altri scatti, fino alla fine del rullino. Poi, in una camera oscura, con degli acidi, dei solventi chimici, le tue foto verranno sviluppate. E non assomiglieranno quasi mai a quello che hai visto, puntato attraverso l’obiettivo. Tanto che ne resterai sorpreso, tanto che dovrai spiegare a te e agli altri che cosa hai visto davvero, cosa intendevi davvero raccontare

Ecco, credo di aver scattato molte fotografie, in tutti questi mesi, ma di non averle mai sviluppate. Di aver consumato pellicole su pellicole e di averle poi riposte da qualche parte. Dimenticando di annotare il dove, il quando, il perché. Di questi scatti, di queste immagini. Che sono rimaste lì, insomma, in attesa. Di un senso o meglio, appunto, di un perché. E solo quando finalmente ho trovato il tempo, o meglio, la voglia, mi sono accorto che tutto quello che ho ripreso, fotografato, conservato, non racconta nulla di nuovo. Ma una storia che avevo già dentro, che voglio ancora narrare, non è la prima volta, con altre immagini. Perché non ho ripreso il mondo, ma il mio mondo .Che solo poche  volte riesco comprendere, ma che, il più delle volte, è solo confusione.

E in mezzo a tutta questa confusione, sai, io penso ancora a te. A te che adesso insegni la felicità. Lontano, a est. A te, che forse dirai che tutto questo è infantile. Un po’ come sperare in una vita diversa, da vincere con un biglietto della lotteria. O come le riunioni di classe. Anno, scuola, non fa differenza. Tanto partecipano sempre quelli che ricordi come i più molesti. O forse, moleste, sono proprio queste righe. Come quelle foto che ci scattano di nascosto. Quando non ci avvisano, prima, di sorridere o di fare la faccia intelligente.

Il tempo ritrovato

Ieri, per festeggiare il mio genetliaco, ho compiuto un atto considerato, almeno qui a Milano, decisamente eversivo. Perdere tempo. Certo, in passato mi sono dedicato, qualche volta, a questa nobile arte, ma quasi tre lustri di soggiorno nella capitale morale d’Italia, mi avevano fatto dimenticare persino i concetti più semplici. Qui, perdere tempo, è concesso solo ad un numero limitatissimo di categorie e di persone Nemmeno i pensionati beneficiano di questo privilegio. Si possono certamente ammirare i cantieri, ma solo dopo aver stilato un preciso calendario di visite a rotazione. Così che si possa coprire il territorio in maniera puntuale e efficiente. Fino alle 10 le nuove fognature, dopo le 12 la rotonda di Via Manzoni, nel pomeriggio la ristrutturazione del campanile, ecc.

Ora, in un contesto così, come si diceva, si disimparano facilmente i trucchi appresi durante gli anni di scuola e di convivenza familiare, per tirare in lungo una giornata senza fare assolutamente nulla di utile a se stessi e alla comunità. Già, per esempio, non sono riuscito a fare a meno di alzarmi alla solita ora, come tutti gli altri giorni. Bruciando immediatamente quei 15-20 minuti che potevo guadagnare indugiando sotto le coperte. “Mi alzo, non mi alzo, forse devo andare in bagno, mi riaddormento, ma no”. Una brutta partenza, insomma. Da recuperare con una adeguata indecisione su come vestirsi e da una colazione elaborata quanto immangiabile. Non mi piacciono le uova, non cucinate in quel modo, almeno.

Poi giretto in centro, ma non in maniera semplice. Intanto prendo la macchina, che come ben so, soffre di carenza di idrocarburi. Pieno al self service, alla pompa con la fila più lunga. Pagamento con carta di credito per esibire, anche se non richiesto, un documento di identità. E ripensamento a fine operazione. Uscita e rientro alla stazione di servizio per lavare, con le apposite lance, vetri e carrozzeria. Poi, il colpo di genio. Parcheggio l’auto a duecento metri da casa e vado in centro a piedi.

Negozio di telefonia gestito da cinesi, dove chiedere con insistenza un accessorio introvabile. E qualora, dai meandri del magazzino di Shangai, saltasse fuori, di sicuro non sarà del colore che desidero. Dopo 10 minuti la commessa getta la spugna. Sarà per la prossima volta. Caffè nella pasticceria più affollata, con prolungata presa visione dell’assortimento di dolcini, dolcetti e brioche che non ho nessuna intenzione di assaggiare. Sosta davanti all’edicola per leggere i titoli dei giornali esposti. A voce alta, sillabando con una dizione da analfabeta di ritorno. E voilà, è arrivato mezzogiorno.

Aperitivo nel bar più lontano, sia in linea d’aria sia come tracciato, dal luogo dove ho parcheggiato l’automobile. Il ritorno assomiglierà a un 3000 siepi, e non ho intenzione di battere nessun record. In coda per gli stuzzichini, prima e lettura del settimanale locale, zeppo di articoli interessantissimi. “Il gatto ritrovato”, “Mercoledì festa al Centro Commerciale”, “Ladri di tombini, all’opera”. Leggo persino l’oroscopo e le previsioni del tempo. Poi, non facciamoci mancare nulla, la spesa al supermercato di quartiere. Quello che ha sempre una e una sola cassa aperta. Perlustrazione di ogni scaffale, non so cosa mi serve o cosa potrei prendere, ma metti il caso che sia in offerta speciale, ci sia un tre per due, si sa mai. Riempio comunque una borsina, non potevo davvero restare senza un tubetto di doppio concentrato di pomodoro. Selezionato accuratamente, che sono un pignolo.

Ritorno a casa, naturalmente per la strada più lunga. Scelgo il parcheggio più complicato, si sono fatte le due. Cucino in modo del tutto incongruente per un solo coperto. Piatto elaboratissimo, porzioni esagerate, otto posate diverse, bicchieri per acqua e vino. Pregusto già la fase di lavaggio piatti e pentole, da effettuare rigorosamente a mano, la lavastoviglie oggi riposa. Radio accesa su dibattiti molesti e gatti da locupletare con gli avanzi. Il pomeriggio incombe, ma lo si può farcire con Netflix e qualche serial che non finirò mai di vedere, dato che, quando si superano le due puntate, comincio a confondere un titolo con l’altro. Daredevil con il dottor House, insomma. Una, due, tre. Poi social di riferimento, con iscrizione fraudolenta ad una pagina facebook di gattari. Al solo scopo, dopo averli inteneriti con quattro foto dei mici di casa, di postare ricette vicentine.

Sera, sera. Tornano i famigli. Adesso mi tocca fare sul serio qualcosa di utile. Ma l’esperimento ha avuto buon esito, direi, almeno otto ore di tempo perduto, oggi. Ne sono ancora capace e la cosa mi rincuora, sono umano. Solo un dubbio, disturba questa mia soddisfazione. Se io perdo tempo, qualcuno lo ritrova? E se lo ritrova, cosa se ne fa? Gli viene conteggiato a parte, riconosciuto come bonus, scalato da qualche sua attività? Non lo so. E se mi capitasse di incontrarla, questa persona, sarei capace di riconoscere il tempo che ho perduto? E magari di farmelo restituire?

 

 

 

Tic e tac

Tic e tac. Anzi no, mi si è fermato l’orologio. Le lancette sono ferme e non vogliono più ripartire. Le dieci e mezza, potrei pensare che sia un ora particolare, da ricordare. Se non per oggi almeno per ieri, per un altro giovedì, mesi o anni fa. Ma come distinguerli, l’uno dall’altro? Perché il tempo, quando scorre, passa e ripassa sempre per gli stessi posti. E l’orologio che porti al polso, allora, non è altro che un orario ferroviario. Che snocciola, minuto dopo minuto, ora dopo ora, le fermate della tua vita. Tic e tac. Ti alzi, esci, rientri. Il tempo per gli amici, per la TV, per leggere, per lavorare. Magari non viaggi sempre in orario, capita spesso sui treni, ma prima o poi arrivi. Tutti i giorni, tutti gli anni.

Lo sappiamo, la costrizione di quelle lancette è più forte di ogni cosa. Il mondo che le ha inventate, per comodità o per noia, pensando così di addomesticare, di controllare finalmente il tempo, ha finito per arrendersi al loro potere. E ha inventato la puntualità e il ritardo, le scadenze, gli appuntamenti. Il tempo dell’uomo è diventato il tempo per l’uomo. Sempre meno, sempre più veloce. Tic e tac, ancora non si muovono, ancora le dieci e mezza. Sono libero? No, non mi sento sollevato, il mio corpo non sa più fare a meno di ore e minuti. Di quadranti e lancette. E’ una sensazione imprecisa, quella che sento, ma urgente. Devo correre, non ce la faccio, mi dovranno aspettare, troverò chiuso.
Tic e tac, tic e tac.