Heimat

Un noto alpinista, ormai più dedito a conferenze e comparsate in feste popolari, se non in comizi politici, piuttosto che a quelle passeggiate a 8000 metri che hanno alimentato la sua leggenda, inserendosi nel dibattito relativo alla concessione della doppia cittadinanza, austriaca oltre che italiani, agli altoatesini, ha buttato lì una curiosa proposta. Il doppio passaporto, diamolo anche ai trentini, dopotutto anche loro hanno difeso la loro patria, la loro heimat.
Ora, se la cosa in effetti mi lusinga, sono appena tornato da Vienna, dove ho scoperto che il tedesco studiato faticosamente nelle scuole dell’ obbligo, lungi dall’essere stato dimenticato, così invece almeno credevo, si è ammantato persino di una pronuncia impeccabile, non posso comunque fare a meno di avere qualche dubbio.
Intanto, perchè solo noi? Trento, Bolzano e poi basta? E l’Ungheria, tanto per dire? I Balcani, la Boemia, la Transilvania ,Gorizia e Gradisca, non erano forse heimat pure loro? Non erano anche loro province di un impero che di fatto racchiudeva la maggior parte dell”Europa? Unite da leggi, istutituzioni comuni? Tanto da darsi, dopo la fine della prima guerra mondiale, costituzioni, pubbliche amministrazioni, codici del tutto simili?
E poi, insomma, se davvero dobbiamo recuperare questa patria, la nostra heimat, sia pure come valore storico, ideale, piuttosto che geografico, non dovremo guardarci indietro e cercare di capire effettivamente come chi eravamo, cosa volevamo, da sudditi dell’imperatore? Perché, dopotutto, quel che si legge sui libri di storia, quelli che da sempre scrivono i vincitori, è che noi non vedevamo l’ora di essere liberati da un giogo insopportabile, da una tirannia, da un iniqua sudditanza. Tanto che ci si racconta che i nostri avi, i nostri bisnonni, erano tutti irredentisti. Col tricolore nascosto in cantina, insieme al ritratto del re savoiardo. Era davvero così? Io so per certo che i miei bisnonni hanno preso a schioppettate gli italiani che venivano a liberarli. Magari non so dire se per reale convincimento o se soltanto per obbedire a un ordine. Ma comunque l’hanno fatto, per poi sorbirsi, non si poteva certo, all’indomani della vittoria, ammettere che i nuovi italiani avevano combattuto, per quattro anni, quelli vecchi, mesi e mesi di confino in qualche località del meridione, a centinaia di chilometri da casa. Poi, per i loro figli, anziché la libertà tanto promessa, l’immigrazione per guadagnarsi il pane.

Intendiamoci, non voglio tornare all’impero, così come non voglio riaccendere la fiamma del nazionalismo che ancora cova in molte minoranze, sparse qua è là per un Europa, ricostruita decine di volte. Minoranze che sognano di un tempo ormai passato, per combattere, anche questa è una guerra, la frustrazione di non essere più parte di qualcosa di più grande. Che lungi dal considerarli, appunto, minoranze, li univa ad altri popoli piuttosto che separarli. Dico solo che quest’idea, l’idea di raggruppare popoli diversi sotto un unica nazionalità, a dispetto delle vicissitudini, delle guerre, delle separazioni, forse, ha un senso. Quello di riunire, e non sotto la bandiera di uno stato, ma quella di un Europa che per secoli ha condiviso, come si diceva, leggi, cultura, istruzione. Un Europa che, appunto, oggi sta andando in pezzi. Un Europa di stati che si dividono, si isolano, si chiudono. Dimenticando che abbiamo tutti una radice comune. E che tutti possiamo definirci europei, prima ancora che italiani, austriaci, tedeschi, ungheresi.