Racconta mia figlia

Racconta mia figlia che, proprio ieri, un signore con la pelle un po’ più scura della sua, un signore nato in Africa, è andato a fare visita alla sua scuola. Racconta mia figlia che è entrato nella sua classe e si è seduto alla cattedra, al posto del prof. E racconta mia figlia che anche il signore aveva una storia da narrare, la sua. Della sua fuga da un posto dove la vita era molto, troppo difficile, dove avevano già ucciso suo padre. Racconta mia figlia che insieme alla madre e alle due sorelle più piccole, il signore ha intrapreso un lungo viaggio, che lo ha portato fino alle coste del Mediterraneo, in un paese chiamato Libia. Dove tante altre persone come loro, che cercavano di fuggire da un destino troppo gramo, attendevano l’occasione. Una piccola imbarcazione a malapena in grado di stare a galla, che li avrebbe portati via. Ma attendere il proprio turno, racconta mia figlia, non era cosa facile. Quasi nulla da mangiare, bande di disperati pronti a derubarti di quel poco che ti era rimasto, agenti di polizia dal manganello facile sempre disposti a picchiare qualcuno. L’attesa è durata a lungo, racconta mia figlia. Una volta sembrava quasi fatta, sembrava ci fosse posto anche per loro, su un gommone. Ma sono stati rimandati indietro. Ancora botte, furti, sopraffazioni. E giorni, settimane, mesi. Cercando di sopravvivere, in quel campo di fuggiaschi. Racconta mia figlia che quando finalmente era arrivato, questa volta era vero, il giorno della partenza, la famiglia aveva dovuto separarsi. La madre si era imbarcata con le sorelle più piccole su un imbarcazione, lui su un altra. Era l’ultima possibilità, non si poteva rinunciare. Racconta mia figlia che la madre, prima di separarsi da lui, gli aveva regalato tre caramelle, un tesoro, visto che nel loro paese natale, riceverne in dono una era già gran festa. E gli aveva detto di tenerle bene in serbo. Se si fosse trovato in difficoltà , avrebbe potuto mangiarne una e ricordare così quelle rare occasioni di festa, le sue sorelle, sua madre. Il viaggio era cominciato di notte, il mare era agitato, faceva quasi freddo. Stipato sul gommone, racconta mia figlia, racconta mia figlia, le mani in tasca a tenere nel pugno stretto stretto, quei tre pezzettini di zucchero, quello che sperava fosse il suo ultimo viaggio, era cominciato. La mattina dopo, quando il mare si era ancor più incattivito, aveva cominciato ad avere paura. Per sé e per la sua famiglia, l’altro gommone non si vedeva più, ma forse aveva solo preso un’altra rotta, Dio avrebbe pensato a tutti quanti. Racconta mia figlia che fu raccolto la sera, da una nave grande, tutta rossa. Che dopo poche ore lo aveva sbarcato in Italia. Poi il centro di accoglienza, le prime cure, parole in una lingua a lui straniera. E racconta mia figlia, la ricerca, il passaparola, avete visto una donna con due figlie? Erano sull’altro gommone, avete trovato anche loro? Telefonate, cartelli, se qualcuno le ha viste, le ha incontrate, mi avvisi, mi chiami, io aspetto. Racconta mia figlia che è stato tutto inutile. Nessuno aveva visto quella donna, le sue bambine. Lui intanto aveva trovato posto in una parrocchia, dava una mano un po’ a tutti, stava imparando a parlare l’italiano E poi un lavoro vero, la scuola serale. Ma non aveva smesso di chiedere, ad ogni connazionale, a chi arrivava, come lui, dall’altra parte del mare, di sua madre delle sue sorelle. Racconta mia figlia che lui , anche se non l’ha detto, non smetterà mai. E che alla fine della sua storia, in un silenzio di ghiaccio, prima di uscire dall’aula ha messo una mano in tasca e ne ha tirato fuori qualcosa. Tre caramelle.