Riders on the storm?

Viene giù che Dio la manda (nota per atei e agnostici, è in corso una violenta precipitazione a carattere temporalesco), benché mi sia alzato molto presto, complici anche due gatti perennemente affamati, stamattina niente uscita. Non che la pioggia mi dia particolarmente fastidio, sia chiaro. Dopo i primi dieci minuti, una volta che ti sei inzuppato per bene il completo invernale, non ci fai più caso, al massimo ti preoccupi di pulire gli occhiali ogni tanto. Ma ho anche un’età, oramai, mi prendo il raffreddore, magari anche la tosse, ecc. E poi bisogna pulire il velocipede. E quelli che fanno al giorno d’oggi sono pieni, con la scusa dell’aerodinamicità, di pieghe strane, di fori piazzati a casaccio. E rotelline in titanio sempre pronte a infangarsi, maledette, che finché non vengono riportate al nitore originario, producono quei “suoni di interferenza” tanto cari al manuale Shimano (nota per i poco esperti, grattano).

Va da sé, quindi, che che mi devo trovare qualche altra occupazione mattutina, tenendo conto che sono solo le sette e mezza e che il pranzo domenicale, salvo imprevisti, verrà celebrato non prima delle tredici e trenta. Nei dì di festa ci piace esagerare, talvolta ci concediamo pure il secondo e contorno. In effetti ho ancora sul comodino diversi libri in attesa, quelli che ti consigliano amici e parenti: “Guarda, devi assolutamente leggerlo, a me è piaciuto tantissimo”. Ma, al solito, tu sei sempre occupato con un altro titolo. Appena iniziato, giusto la prefazione. E allora lo metti in lista. Due, tre, cinque, dieci. Finché il comodino dell’Ikea non cede per il peso o ti scade il prestito della Biblioteca Comunale. E non lo puoi rinnovare, ci sono già mille prenotazioni. Rimandi quindi la lettura al prossimo mese, così hai anche il tempo di passare all’Ikea per un comodino nuovo. Anzi, due. Che non trovi mai il modello della volta scorsa e scompagnati, stanno male. Ma di leggere, stamattina, non ho proprio voglia. Ed è meglio conservare qualche volume per quando in casa aleggia lo spettro di un possibile giro di shopping in Corso Buenos Aires: “Non posso, devo assolutamente finire questo libro. Anzi, lo consiglio anche a te, è stupendo”

Mettere in ordine i CD sparsi per tutta la casa è fuori discussione. Sono troppi e soprattutto decisamente datati. C’è davvero il rischio che, colto/colti dalla ciclica nevrosi del “ma davvero ascolto/ ascolti ancora roba del genere?”, vengano avviati alla locale discarica album che rimpiangerò, ne sono certo, la settimana prossima. In effetti tutte le volte che passo alla piattaforma ecologica, trovo gente che guarda con nostalgia i cassoni dell’indifferenziato. Là dentro, mercoledì scorso, è finito un pezzo della loro vita. Resta solo il rimpianto (e pensieri omicidi nei confronti di mogli, fidanzate, conviventi)
E’ anche troppo presto per un giro sui vari social di riferimento. A quest’ora, postare messaggi irriverenti, se non propriamente denigratori su pagine e siti di politici e di gente più o meno famosa, è scarsamente gratificante. Manca la visibilità, politici e gente più o meno famosa, stanno ancora smaltendo la sbornia di ieri sera. Non c’è gusto, non c’è riconoscimento. L’anno scorso, pioveva anche quella domenica lì, ho scritto sulla pagina FB di Salvini che dopo accurate ricerche genealogiche, avevo le prove delle sue ascendenze albanesi (Salvini, si fa per scherzare, suvvia!). Non mi ha nemmeno risposto.

Della cucina abbiamo già detto. Visto l’orario della refezione domenicale, dovrei mettere in cantiere qualche piatto complicato e/o laborioso. Roba da far sobbollire per ore o necessaria di almeno quaranta ingredienti differenti. Di cui almeno la metà da triturare finemente a mano con i coltelli che ti regalano con i punti dell’Esselunga. E poi, qui sta veramente il problema, manca l’indispensabile bottiglia di Teroldego da sorseggiare mentre mi aggiro tra i fornelli. Con addosso un grembiule blu, con ricamata a lettere gialle la scritta “SudTirol”.

Fra poco, comunque, si alzerà il resto della famiglia. E superato l’iniziale shock da risveglio, bevuto il caffè, sono sicuro che troveranno loro qualcosa da fare, per me. Qualcosa che avrà a che fare con scale o attrezzi da idraulico, ne ho il presentimento. Mani unte di grasso, bastoni da tende sulla testa, viti da rincorrere ovunque. Comincio a preparare tuta, casco e scarpette. Cosa vuoi che sia, per due gocce d’acqua…

Il lago e la nonna.

Sesto Calende. Da Milano, tutta una tirata. Gruppetti sciolti di ciclisti, ti metti a ruota, ti fai portare. Fra poco si vede il lago, il Lago Maggiore. Sto andando in Svizzera, passerò il confine. Stavolta dall’altra parte. Non da Como, non da Chiasso, è diverso. Arona, arriva il Piemonte, ecco il San Carlone. Già vista, Arona, in quella gara che arriva al Mottarone. Brutta storia, non finisce più quella salita. In cima quattro skilift e tanti alberghi.
Strada stretta, parapetto e poi subito l’acqua, i chilometri vanno via. Comincia a fare caldo. Stresa, bella, tutta raccolta in una piazza. Località da Vip. Ci fanno Miss Italia, i concerti. C’è pure un centro di studi su Rosmini. Filosofo, beato, nato a Rovereto, ma trasferito qui. E si capisce anche il perché.

Su e giù, la strada segue il lago, il vento spinge, è facile. I chilometri, ancora, scivolano via, il computerino sul manubrio li segna uno dopo l’altro. Fra poco sono a Verbania. Le macchine hanno tutte targhe tedesche. I laghi, dopotutto, sono cosa loro. Da quando Goethe li raccontava, col sole e con la nebbia.

Pallanza. Poche case attorcigliate sulla riva. Io non c’entro nulla, sono solo di passaggio, piegato sul manubrio. Ma c’è un pezzo di storia mia,qui. E’ il 1915, è la guerra mondiale. La prima, ancora nessuno sa che ci sarà anche la seconda, è appena cominciata. La nonna, la madre di mia madre, ha solo dieci anni. E non sa distinguere, lei, suddita di Francesco Giuseppe, le divise dei soldati. Austriaci, italiani, tutti vestiti di verde, tutti uguali. Ma quelli che attraversano il confine, il suo confine, è il ventiquattro maggio, sono italiani. Parlano la sua stessa lingua, ma per loro, lei e la sua famiglia, sono un fastidio. Siamo in guerra, abbiamo cannoni da mettere in posizione, trincee da scavare. Voi, civili, non importa se qui siete nati, se qui avete vissuto, dovete andare via. Ci sarà da sparare, cadranno le bombe, Via, andate via. La mettono su un treno, la nonna. Lei e tutta la sua famiglia. E la portano proprio a Pallanza. E lei, montanara, aspetterà la fine della guerra proprio qui. Su questo lago. Chissà cosa avrà pensato su queste rive, davanti a quest’acqua. Con quest’aria diversa, tra gente che ha un altro dialetto. Se ne ricorderà per sempre, nei suoi racconti. Sfollata, su un treno pieno di gente come lei. In una terra allora temuta come straniera. Italia, è il suo nome.

Frontiera. Garitte vuote, la Svizzera non chiede nulla, nemmeno chi sei. Attraverso la linea mescolato a dei motociclisti. Locarno è vicinissima, eccola qui.

Cannondale e Cannonau. Quattro.

Ma comunque ce ne sono tanti, qui, proprio su questo tratto di costa, di residence e villaggi. Gruppi di villette e casette, a tre o quattro vani. A pochi metri dal mare, un filo più distanti, a metà collina, un po’ troppo distanti. E tutti i villaggi, i residence, chiamali come vuoi, con le loro casettine in muratura, con le colonne corinzie o doriche, poi chiedo, che sostengono la veranda per il relax estivo, sono vuoti. Con l’immancabile cartello fuori. Si vende un bilocale, si vende unifamiliare, si vende. Ci passi davanti e sembra la pubblicità della Lego, manca solo l’omino fatto di mattoncini con in mano la zappetta o la cassetta piena di bottiglie di latte. Magari ti viene anche voglia di chiamare il numero di telefono indicato, senza intermediari, ovvio. Chissà che, come primo cliente, non te la regalino. O che ti offrano un posto da custode. No, l’idea non mi attira molto. Certo, la domenica pomeriggio puoi organizzare, proprio sul viale principale, il remake del duello di “C’era una volta il west”, ma alla lunga la cosa stufa. Piuttosto viene da domandarsi come mai, queste casette, ma anche le villette, non si vendono. E se non si vendono, perché le si continua a costruire. Mi pare un circolo vizioso, siccome quella di prima non ti è piaciuta, e non l’hai comperata, te ne faccio un altra. Non ti piace nemmeno questa? Aspetta un minuto che ti faccio vedere io. Eccetera, eccetera. Magari è un problema di bolle immobiliari, di capitali da investire, soldi da riciclare, non lo so. Ma ho paura che rimarranno lì, villaggi e residence, casette e villette, vuote, per anni, decenni, secoli. E fra un millennio o due, dopo l’olocausto nucleare, lo scioglimento delle calotte polari, il 2012 in ritardo, qualche archeologo le troverà. E sicuramente penserà che siano delle necropoli. Costruite per accogliere, per il viaggio verso l’aldilà, le elite del XXI secolo. Sacerdoti, guerrieri, idraulici e dentisti. Quei dischi presenti sopra ogni tetto, rivolti verso un unica direzione, scriverà l’archeologo, sono chiaramente un riferimento ad una divinità solare. Che con la sua benedizione riempiva le casette (o villette), di gioia e allegria. Da altri scavi, infatti, sia pure in tombe più popolari, sono stati rinvenuti dei manuali di devozione. Per ogni giorno, ad ogni ora, una preghiera o un rito diverso. Entrando poi all’interno delle villette (o casette), si scoprirà, poco discosto dalla camera degli sposi, pronta a suggellare per l’eternità l’amore degli occupanti, un locale per i sacrifici rituali alle divinità dell’oltretomba. Qui l’altare dove offrire cibo agli dei, mediante un rito semplice e veloce, il microwave. E il deposito delle offerte, che andavano conservate per i quindici giorni occorrenti a celebrare i funerali, già indicato, in antichi documenti, come NoFrost. Più discosto il luogo per le abluzioni sacre dei necrofori e le lampade divine per sconfiggere l’eterno buio dell’Averno. Capaci, grazie al loro potere sacro, di segnare i corpi dei destinati alla vita eterna. Solo una cosa lascerà perplesso il nostro archeologo. I tavoli in pietra, simili a menhir, nascosti al sole da curiose tettoie. Per il convivio degli dei? O per i picnic dei dei parenti in visita ai loro cari defunti?

Cannondale e Cannonau. Tre.

E viene anche il giorno della crisi. E’ domenica, il giorno canonico, quello consacrato all’allenamento durante tutto il resto dell’anno. Tu sei in vacanza, ora, e già sei uscito martedì, mercoledì, giovedì, ecc, ma la domenica conserva sempre il suo significato speciale. Quello delle pedalate in compagnia, con tanto di rivalità più o meno private, quello dell’arrivo a casa giusto in tempo per il pranzo. E invece, proprio oggi, non va. Intendiamoci, mica stai male. Ti sei alzato alla solita ora, poi colazione, maglietta pantaloncini guanti scarpette casco ma, proprio al primo strappetto… Non va, non va proprio. Tu spingi, ma le gambe non girano. E’ un po’ come quando l’automobile, complice una candela difettosa, funziona con un cilindro in meno. Hai voglia a premere l’acceleratore, non va. E smanetti col cambio, marce su, marce giù, ma è tutto inutile, vai piano. E cominci a pensare al motivo. Forse quella cena all’agriturismo? Sette antipasti, due primi, tre secondi, dolci, Cannonau (Cannonau, non Cannondale), caffè e mirto? Le birre bevute ieri per combattere il caldo assassino? Le partite a racchettoni sulla spiaggia tra un ombrellone e l’altro? Le ore piccole tirate l’altra notte? Chissà… Ma intanto proprio non va, e qui di pianura ci sono giusto quei duecento metri fino alla rotonda, poi, che tu scelga di andare destra o a sinistra, la strada, immancabilmente, sale. Immediatamente derubrichi l’allenamento a semplice passeggiata, tornare indietro dopo dieci minuti è decisamente poco dignitoso, non si fa. Facciamo finta che si fa, allora, del turismo. Ti fermi ogni tanto a scattare qualche foto, saluti tutti quelli che incontri. Fai il disinvolto, insomma, mica sei qui per preparare la Vuelta, sei in ferie, dopotutto. Ti fermi anche a prendere un cappuccino, non sia mai che si tratti di carenza di zuccheri, e agguanti, errore madornale, una specie di bombolone. Che non è ripieno di crema, ma di pomodoro, mozzarella e acciughe. Ti senti quasi un tedesco. Ma anche la curiosa nutrizione non ha effetto, non va, non gira. Si potrebbe tornare indietro… Ma intanto, di riffa e di raffa, sei arrivato dall’altra parte del colle, la discesa te la sei goduta. E strade alternative, lo sai già, non ce ne sono. Piano pianino, rapportino corto corto. Uno due, uno due. Non manca molto, forza. Non sale più, adesso picchia verso il basso. Il mare, sei quasi arrivato. Li facciamo un paio di chilometri, due non di più, certo, a manetta? Tanto per provare, dai. Funziona, ma giusto perché hai il vento a favore. Manca poco, ancora, su. Ecco l’ingresso del campeggio. Arrivato, se ne riparla domani

Cannondale e Cannonau. Due.

Caldo brutto, è l’ultima salita. Non c’è un albero, un cespuglio, è tutta al sole. Come quella volta del Vars, in Francia. Grazie a Dio è più corta, ma è proprio l’ultima, non ce la faccio più. Sono uscito presto e mi sono perso subito su queste colline. Dove le strade spesso si interrompono senza nessun preavviso, e devi tornare indietro e provare da qualche altra parte, se vuoi tornare a casa. Eppure stamattina sembrava cosi semplice… Vado da quella parte, scendo dall’altra, scalo quelle tre o quattro salite, un poco tiro il fiato in discesa e quei cento chilometri sono fatti. Sbagliato. Le strade si assomigliano tutte, la segnaletica latita, nessuno a cui chiedere. E se proprio trovi uno è un francese in camper ancora incazzato per la vittoria di Nibali al Tour (son dai tempi di Bartali che gli girano le balle). Intendiamoci, il panorama è stupendo, il mare che scompare e riappare a ogni curva, la strada che si inerpica fra i fichi d’india. Qualche raro collega di ruote, due li ho perduti quasi subito su un paio di tornanti , un altro l’ho lasciato andare per la sua esagerata loquacità, case sparse in un vuoto a cui si è ormai persa l’abitudine. E una, due, tre, non finiscono mai, però. E sono pure cattive, che il sardo è pratico. La linea più corta che unisce due punti è una retta, non è vero? E allora un bel rettone in salita di un paio di chilometri. Tanto si va in macchina. Soffrono solo gli asini e i ciclisti Il sole, sempre più alto picchia sempre più duro. Magari dovrei togliermi il casco, ma mi sovvengono le raccomandazioni di tutta la famiglia. Tienilo in testa, non si sa mai. Dio, che fatica. Adesso però scende, curva a destra, curva a sinistra. Guardo le barche ormeggiate, la gente sulla spiaggia, sotto l’ombrellone e poi, ancora, la strada. E’ ultima, una volta arrivato in cima è fatta. Arrivarci, però, Piano, piano, regolare, mi raccomando. Mi sorpassa il francese di prima, quello del camper. E godo al pensiero che forse, anche lui si è perso. Manca poco, ancora un chilometro, tre curve più su, si scollina. Dai, dai… E quello lì a lato della strada che fa? Bici per terra, lui disteso, gli sarà mica venuto un colpo? No, appena gli passo davanti si rialza e mi fa:”Forza, che poi è tutta discesa!” Si lo so, sono arrivato dall’altra parte, stamattina, ma perché sta lì? Mah.. In cima, adesso giù, a casa. Arrivo in tempo per pranzo, magari.

Cannondale e Cannonau. Uno.

E’ vero, sono le sei e mezzo del mattino, bisogna partire presto, perchè poi il sole picchia, sull’asfalto, ma questo deserto, questo silenzio, non l’ho provato mai. Bisogna capire, vengo da un posto dove nulla è mai immobile. Non importa l’ora, non importa il giorno, il mese. C’è sempre qualcuno che deve andare da qualche parte. Per lavorare, per tornare a casa. Cantieri, discoteche, merci da scaricare, mercati, fa lo stesso. Ma questa strada, che sale e scende sul mare è diversa, ci sono solo io. Che pedalo. Il rumore delle onde, quello che mi ha tenuto sveglio questa notte, mare mosso forza non so quanto, il fruscio delle ruote e l’affanno della salita. Solo io, nessun altro. Se alzo la testa e guardo avanti mi posso già immaginare alla prossima curva, in cima a questo strappo. Oppure con le mani basse, a disegnare la discesa. I minuti passano e  non arrivano macchine che ti fanno respirare il loro scarico, non arrivano compagni su sue due ruote per dividere la fatica. E’ bello. Ancora su e poi giù, il faro sulla piccola isola si avvicina, ci sarà un porto, qualche casa. Bar aperti per caffè e cappuccini. Accelero, mi sbrigo. Fuori dalle case la strada si inerpica ancora e torna il silenzio, Il sole è più caldo, ora ma la strada è ancora vuota. Su in piedi sui pedali, questa è più lunga. I due me li ritrovo dietro all’improvviso, le loro ruote frusciano più delle mie, vanno più forte. Li lascio andare, voglio restare ancora da solo per un po’. Scompaiono presto dietro una curva, va bene così. Oggi niente gare, niente duelli. E giù per questa discesa, forte, più forte. La costa i campeggi,le macchine. Che non hanno la stessa fretta, la stessa prepotenza che hanno a Milano, ma non le vorrei comunque qui. Aver avuto in regalo, sia pure per un ora sola, una strada, ti fa prendere cattive abitudini. Mi infilo in un gruppetto che sbuca da un incrocio. Non so dove vanno, ma fa lo stesso.

Quanta strada nei miei sandali

Due gennaio 1960, muore Fausto Coppi. L’airone ha chiuso le ali, scrive Vergani, il più coppiano dei coppiani. l’Italia ancora non lo sa, ma un epoca è finita. Bartali è lì, è il più affranto, non sa darsi pace, non può essere vero. Gino non corre più da anni, ha attaccato la bicicletta al chiodo già dal 1954, fa il direttore sportivo. E ha ingaggiato Fausto, ormai quarantenne, nella sua squadra. Ha già capito che Coppi non può, non potrà mai smettere. Non potrà, come lui, fare qualcos’altro, qualsiasi cosa diversa dal pedalare. Coppi è stata la sua bestia nera, il suo rivale più accanito, quello che ha diviso l’Italia in due. O sei per Gino o sei per Fausto. Coppi l’ha tirato su lui, quando l’ha voluto alla Legnano, quando già presentiva che quel ragazzo magro dal grande naso sarebbe diventato il Campionissimo. Quello che si aggiudica il Giro d’Italia che doveva vincere lui, quello che gli darà battaglia su ogni salita, quello che, spesso, gli toccherà inseguire. Da noi, ma anche in Francia, sull’asfalto, sul pavè. Fausto, che gli assomiglia in tutto, nella fatica, nelle sconfitte, nei trionfi. Ma anche nella tragedia. Perderanno tutti e due un fratello, su una strada, durante una corsa. Ma continueranno a a darsi battaglia davanti all’Italia intera. Gino sa di essere più vecchio, di non poter competere ancora a lungo con Fausto. Ne accetta la superiorità negli ultimi anni della sua carriera, gli cede la sua borraccia, gli offre la sua scia. E diventa, dopo quel maledetto giorno di gennaio, il suo cantore. Per quarant’anni ne racconterà le gesta, le imprese. Ma anche i litigi, le ripicche, le debolezze. Tratteggerà il profilo del Campionissimo di Novi come nessun giornalista è mai riuscito a fare. Ne terrà vivo il ricordo, lo difenderà dalle ossessioni di un Italia bigotta fin troppo interessata alla sua vita privata. Lo restituirà ad una dimensione più umana, quella della fatica e del sudore.Uguale per tutti. Bartali, che aveva vinto due Tour a dieci anni di distanza, Bartali, che tutti davano per finito. Questo, più che le gare vinte, le montagne scalate, le fughe infinite, è il miracolo di Bartali. Se Fausto è stato grande è perché sulla sua strada ha trovato Gino.

Ladri di biciclette

La pedivella è graffiata nel punto giusto, proprio dove l’asfalto l’ha grattugiata, in mezzo a una rotonda. Le ruote sono a posto, con i raggi spessi che si intersecano e le Continental comprate in Olanda. Solo la piega è un filo alzata, quasi a invogliare ciclisti meno esasperati, pedalare, in certi casi, può anche essere riposante. Comprala. Subito, non aspettare. Non ci sono dubbi, è la mia, con la catena nuova nuova appena cambiata. La descrizione è in cirillico, il sito, che promette 10.000 bici usate, naturalmente da qualcun altro, è ucraino. Magari con tanto di web farm proprio a Kiev. Ma le parole  Shimano e FSR sono adeguatamente compitate in caratteri latini, questi son particolari che tirano su il prezzo. Per niente esagerato peraltro, solo novecento dollari, si attacchi Putin e tutti i suoi rubli. Ma comunque un buon guadagno, per quei cinque minuti di lavoro necessari per prelevarla dal mio garage. Certo, il costo del trasporto deve comunque incidere non poco. Altra foto, forcellini bassi con l’attacco per il cambio modificato, ancora la caduta nella rotonda, quella dei denti sull’asfalto. Poi immagini a casaccio di pignoni e freni.

In fondo alla pagina un form per chiedere informazioni e mandare le proprie offerte d’acquisto. Ma ovviamente non conosco  l’ucraino, anche se non dubito che l’inglese sia ben accetto. Quasi quasi, potrei scrivere davvero. E fingermi interessato, chiedendo lumi, si sa come sono pignoli gli appassionati, sul proprietario precedente. Quanti chilometri ha percorso, se l’ha mai graffiata, dove la teneva tra un allenamento e l’altro (no, questo lo so già, in garage), perché ha deciso di disfarsene. Chissà cosa sarebbero capaci di inventare. Oppure potrei minacciarli, in ordine di gravità, di denunce e rogatorie internazionali, interventi dei caschi blu, piogge acide e scie chimiche, ispezioni dell’onorevole Bonino.

Ma so già che è inutile, Kiev è lontana, nemmeno in Europa. Se la comprerà qualche russo con la mania del Made in Italy. Ci andrà a spasso sulla prospettiva Nevskij e farà finta di aver appena terminato la Leningrado – Mosca. Miss biondissime allora lo baceranno, intonerà canti patriottici con gli amici, berrà vodka fino a svenire. E in quel momento, proprio in quel momento, dei separatisti ceceni la ruberanno anche a lui.

Magari

Stronzo.

 

Sì, stronzo. Perché non mi hai rubato solo la bicicletta. Mi hai rubato tutti i chilometri che avevo fatto e quelli che ancora dovevo fare. Le sveglie all’alba della domenica, con il sole che ancora non scalda e qualche volta la nebbia. Le strade verso il lago e quelle verso la montagna, anche quelle dove mi sono perduto. Le magliette da lavare, i pantaloncini consumati, le scarpe con la suola rigida. E il tempo passato a pulire e lucidare, a provare catena e cambio. Ad ascoltare il ticchettio delle ruote fatte girare a mano per vedere quanto filano dritte. A regolare, per ore, millimetro dopo millimetro, manubrio e sella. Le chiacchiere scambiate con compagni raccolti per strada, il rumore dei freni in discesa. Il freddo sotto la tuta d’inverno, il sudore sotto il casco d’estate. L’odore d’olio e il grasso sulle mani. Stronzo.

 

La migliore gara della nostra vita

No, non l’ho vinta, non sono arrivato primo, non ho alzato le mani sotto il traguardo. Solo secondo, a pochi metri da un tizio leggero come una piuma, che ci aveva massacrato fin dal primo tornante. Dieci chilometri di salita, senza respiro, con lui davanti e noi, cinque o sei, dietro a guardarlo salire. Una, due curve più in su. Eravamo rimasti tutti in gruppo, nei cento e più chilometri che ci avevano portato ai piedi della montagna. Qualche scatto c’era stato, certo, il traguardo volante con premio incorporato faceva gola, soprattutto a quelli che sapevano che in cima non ci sarebbero arrivati. Al bivio, dopo qualche chilometro a testa bassa, per ricucire i piccoli distacchi, c’erano tutti. Ma quando di colpo la strada ha cominciato ad arrampicarsi, senza un minimo di preavviso, siamo rimasti in pochi. Lui, piccolo e tutto nervi, scatti e ancora scatti. Noi, più indietro, a cercare di resistere. Prima venti, poi dieci, poi cinque. Due austriaci, capitati lì per caso credo, magari a preparare chissà quale corsa. E noi tre, italiani e quasi concittadini, che ci conoscevamo da tante corse. Perché in cima alle salite eravamo ormai soliti spartirci podio e premi. Qualche volta era più forte uno, qualche volta era più forte l’altro. Ma sempre tra di noi, alla fine, ce la dovevamo giocare. Eravamo avversari, ma non nemici. Dopo l’arrivo, spesso, quasi sempre, dopo il podio, i fiori, i trofei, rimanevamo a parlare tra noi. Di ragazze, di esami, di cose da fare. Ma intanto quel tizio non si faceva prendere. In piedi, sui pedali, metro dopo metro. E noi ancora dietro, bene attenti a non sbagliare, a non chiedere troppo a muscoli e fiato. I primi a cedere, di schianto, i due austriaci. Che avevano dimenticato che pedalatori come quello  duecento metri avanti, vuoi per costituzione, vuoi per grazia divina, siano capaci di scattare anche dieci, venti volte. Mentre noi, onesti travet su due ruote, possiamo solo sperare di prenderli per sfinimento. Si, possiamo alzarci sui pedali anche noi. Una, due, tre volte. Ma non di più. Non siamo fatti per quello, ma solo per inseguire senza grossi scossoni. E magari li prendiamo pure, i grimpeur veri, ma senza fare come loro. Ci basta solo continuare, un metro dopo l’altro, una pedalata dopo l’altra. I due austriaci, dicevamo, cedono. Perdono terreno, cinquanta, cento metri. Spariscono dietro una curva, non li vedremo più. Io vado fortissimo, sento le ruote che girano, che fanno rumore. La salita continua, sempre più ripida. Ci guardiamo, cerchiamo di capire chi ha ancora forza e fiato per stare davanti, per inseguire ancora. Un altro chilometro, altri tornanti. Siamo rimasti in due. Poi, anche l’altro che mi accompagna, non mi ricordo più il suo nome, smette di inseguire. Lo guardo un attimo, lui scuote la testa, non ce la fa più. Devo lasciarlo qui, lo sa benissimo, non me ne vorrà. Vado, vado da solo adesso. Il tizio tutto nervi e gambe è sempre lì, un tornante più sopra. No, non ce la faccio, non lo prendo più. Raddrizzo la schiena anch’io, metto un rapporto più agile. E’ inutile insistere, voglio solo arrivare, adesso. Manca un chilometro e la gente è già in mezzo alla strada. Mi incitano, mi alzo sui pedali per loro, sento le loro grida. Ma non posso raggiungerlo, lo so. Ecco l’arrivo. Lui è passato solo pochi secondi fa. Mi fermo pochi metri dopo il traguardo, scendo dalla bici e mi siedo per terra. Non ho più fiato. Arriva qualcuno e mi mette un plaid sulle spalle. Fa un freddo cane, quassù, me ne accorgo solo adesso. Alla premiazione, un ora più tardi, siamo tutti imbacuccati. Gli stringo la mano, gli austriaci ci guardano tristi. Vado a salutarli, anche se il mio tedesco si limita a poche frasi. Ci rivedremo il prossimo anno. Salgo in macchina, quella che dovrebbe essere l’ammiraglia, sono cosi stanco che mi addormento.