Polaroid

Me ne accorgo soltanto oggi. E’ tanto tempo che non riesco a scrivere, a mettere insieme qualche parola, qualche frase. Per raccontare quel che succede, anzi, quello che mi succede. Scrivere, ho sempre pensato, è un po’ come sviluppare una pellicola. Si, lo so che adesso non si usa più. Ci sono le macchine fotografiche digitali, gli smartphone. Puoi fare tutte le foto che vuoi, rivederle subito, cancellarle se non ti piacciono, farne delle altre. Ma a me piace pensare al vecchio procedimento. Ti guardi attorno, metti a fuoco, scatti. E poi ancora, altri scatti, fino alla fine del rullino. Poi, in una camera oscura, con degli acidi, dei solventi chimici, le tue foto verranno sviluppate. E non assomiglieranno quasi mai a quello che hai visto, puntato attraverso l’obiettivo. Tanto che ne resterai sorpreso, tanto che dovrai spiegare a te e agli altri che cosa hai visto davvero, cosa intendevi davvero raccontare

Ecco, credo di aver scattato molte fotografie, in tutti questi mesi, ma di non averle mai sviluppate. Di aver consumato pellicole su pellicole e di averle poi riposte da qualche parte. Dimenticando di annotare il dove, il quando, il perché. Di questi scatti, di queste immagini. Che sono rimaste lì, insomma, in attesa. Di un senso o meglio, appunto, di un perché. E solo quando finalmente ho trovato il tempo, o meglio, la voglia, mi sono accorto che tutto quello che ho ripreso, fotografato, conservato, non racconta nulla di nuovo. Ma una storia che avevo già dentro, che voglio ancora narrare, non è la prima volta, con altre immagini. Perché non ho ripreso il mondo, ma il mio mondo .Che solo poche  volte riesco comprendere, ma che, il più delle volte, è solo confusione.

E in mezzo a tutta questa confusione, sai, io penso ancora a te. A te che adesso insegni la felicità. Lontano, a est. A te, che forse dirai che tutto questo è infantile. Un po’ come sperare in una vita diversa, da vincere con un biglietto della lotteria. O come le riunioni di classe. Anno, scuola, non fa differenza. Tanto partecipano sempre quelli che ricordi come i più molesti. O forse, moleste, sono proprio queste righe. Come quelle foto che ci scattano di nascosto. Quando non ci avvisano, prima, di sorridere o di fare la faccia intelligente.