Il mare dentro

A Milano, una volta, c’era il mare. Tanto è vero che ancora ci è rimasto l’Idroscalo. Da lì partivano, sugli enormi SIAI MArchetti, Alida Valli con le sue famose mise, spesso accompagnata da Amedeo Nazzari. I gerarchi in cerca di notorietà, le spie dell’Ovra e la sempre più intraprendente classe industriale brianzola. Che, in tempi in cui l’Ikea era ancora lontana da venire, ambiva a conquistare il mondo con cucine e tinelli da pagare comodamente a rate.

Ma non solo a usi così prosaici, era destinato il mare di Milano. A Segrate, la buona e giudiziosa amministrazione meneghina, aveva realizzato degli stabilimenti balneari per la cittadinanza. Che poteva arrivarci comodamente in tram e, con poca spesa, affittare un ombrellone e una cabina. Ogni fine settimana vi facevano tappa anche le corriere da Bergamo e dalla Valtellina, piene di montanari ansiosi di tuffarsi fra le onde. Nei bar sulla spiaggia, per venire incontro alle loro abitudini, si servivano fiaschi di Valcalepio Rosso e porzioni giganti di pizzoccheri. Alla sicurezza dei bagni provvedevano gli studenti della “Scuola Soccorritori Sant’Ambrogio”. Istituto prestigioso e celebre in tutto il mondo. Le domande di iscrizione, per i pochi posti disponibili, erano migliaia. Inutilmente i bagnini di Rimini avevano tentato di stipulare una convenzione, offrendo in cambio degli animatori. Si erano visti relegare dopo le delegazioni straniere di Miami e di Copacabana.

Nei dintorni, vicino a Peschiera Borromeo, erano sorti ben presto alberghi e resort di classe, progettati dal Gruppo 7, e un casinò, frequentato da ricchi svizzeri provenienti perlopiù da Lugano. Per i meno titolati, le innumerevoli sale da ballo che fiancheggiavano il lungomare. Signore, ragazze debuttanti, tombeur de femme ma anche trombè, potevano ascoltare e danzare la musica del Trio Lescano e di Alberto Rabagliati Per qualche tempo si esibì anche il celeberrimo Natalino Otto, ma ben presto le lamentele di chi non apprezzava quella musica venuta dall’America, il jazz, ebbero la meglio. Natalino si dedicò, allora, a incidere dischi con Gorni Kramer. Ma questa è un altra storia.

Naturalmente, la buona e sempre più giudiziosa amministrazione milanese, promovueva anche gli sport acquatici, Ogni sabato pomeriggio, nel piccolo golfo di Segrate, si tenevano gare di canottaggio e di nuoto. Dove le varie polisportive, la più titolata quella dei tramvieri, si sfidavano in duelli epici in grado di eclissare ogni altra competizione, persino quelle olimpiche. E’ noto, infatti, che il record del mondo dei 100 stile libero, non fu detenuto, fino al 1934, come comunemente si crede, da Johnny Weismuller. Ma da Carlo Boniardi, controllore sulla linea Piazza Duomo – Lambrate, che lo stabilì durante il ponte di Ferragosto del 1930. Non parliamo poi di quanto i nostri canottieri, del Gruppo Vigili Urbani, hanno ridicolizzato gli atleti delle regate Oxford Cambridge, venuti qui da noi per apprendere le tecniche di vogata.

Insomma era bellissimo, il mare di Milano. Ce l’hanno rubato i tedeschi, dopo l’otto settembre. Via le cabine, gli ombrelloni, le balere, gli hotel e anche il casinò. Hanno raccolto tutta la sabbia e con i treni, l’hanno portata a Lubecca. Il golfo di Segrate riempito di terra, spianata poi con i panzer. I bar smontati e trasferiti sul fronte russo, come alloggi ufficiali. E noi, davvero, ci siamo rimasti come quelli della maschèrpa. Adesso, per andare al mare, ci tocca arrivare fino a Rimini. E vuoi mettere le piadine con la cutuleta?

Endless Milano

Di Milano, credo di aver scritto molto. Fin da quando, provinciale anzichenò, sono capitato qui con un furgone con dentro quattro valigie e una lavatrice comperata a rate. Alla scoperta, allora mi dicevo, della città di Manzoni, Gadda, Scerbanenco. Sul serio, ne ero davvero convinto. Tanto da compiere, nei primi mesi della mia permanenza, armato di guide, mappe e panini, il periplo di ogni quartiere . Alla ricerca del Forno delle Grucce o della casa di Donna Prassede, dalle parti di Porta Venezia, innanzitutto. A Parco Sempione, poi, per cercare di incontrare, tra gli alberi secolari e le panchine gremite di badanti in libera uscita, l’Adalgisa. Pronta a raccontare della passione di suo marito per i francobolli. Infine, la parte più buia, tra i navigli seminascosti dalla nebbia e le vie della mala milanese, la lingera. Accompagnato da Duca Lamberti, naturalmente, così da non dover temere brutti incontri.

Passata l’infatuazione letteraria, sono cambiate  le esplorazioni. La fabbrica del Duomo, tre lustri, in città si diceva, mai visto interamente. C’è sempre un cantiere, c’è sempre un cartello pubblicitario che cela i lavori di squadre intere di muratori e delude nugoli di pensionati. Nemmeno la visita del Papa di sabato scorso ha interrotto questo infinito lavoro. Porta Ticinese, con i suoi localini: pizza, kebab, piadine, wurstel e pesce fritto, sempre gremiti di studenti, le Colonne di San Lorenzo e la Basilica di sant’Eustorgio. Quello delle reliquie dei Re Magi portati a Milano, forse dalla Palestina, su un carro tirato da due buoi. Si sono fermati qui e non hanno più voluto proseguire. Tirate su una chiesa, per favore. Si lo so che dopo arriva il tedesco e si porta via tutto, ma intanto facciamola. Porta Romana, architettura spagnola, costruita per festeggiare il matrimonio di un re. Qui, si dice, abitava il diavolo. Che, mentre in città infuriava la peste (rieccolo, il Manzoni), organizzava feste e baccanali dentro il palazzo del Marchese Acerbi.

Insomma, una bella fatica. Anche perché, se ero comunque disposto a farmi ammaliare da questa enciclopedia di pietra e cemento, preferivo, come preferisco oggi, viverne un po’ staccato. A qualche minuto di treno, sulla linea che dal capoluogo lombardo, porta a Como. Poca roba, dieci minuti al massimo, ma il tanto che basta per vivere in un sobborgo che mi ricordava il paesello natio. La piazza principale, il bar sotto casa, la stazione. Ci si conosce tutti, anche troppo, ma va bene così. Talvolta tornavo a casa tardi, quindi, perché certe vie, certi quartieri, si possono vivere solo di notte. Vuoi per quello che vi è successo, vuoi per quello che vi succede ogni sera.

Tre lustri, appunto. E in tutto questo tempo il sobborgo, grazie a solleciti costruttori e a comuni affamati di oneri di urbanizzazione, si è avvicinato alla città. Una casa oggi, un condominio domani, i pochi chilometri tra casa, casa mia e l’ufficio, quasi in Piazza Duomo, si sono trasformati in un altro quartiere. Che non ha ancora un nome e forse non l’avrà mai. Ma sta lì. E anche lì succederanno storie. No, non la peste, non sono più quei tempi, ma qualcosa da raccontare ci sarà sicuramente. Quasi quasi avrei voglia di farlo io, se ne fossi capace

 

Tachipirina

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Sono malato e sono qui a lavorare. Ho la febbre, il mal di pancia, le ossa si lamentano, gli occhi si chiudono. Non ho ben capito perchè mi sono alzato stamattina, fatto colazione con due dita di latte caldo e una tachipirina. Perchè son salito sul solito treno, strapieno di gente chiassosa, che fastidio, per raggiungere il centro della metropoli. Apri ufficio, sorridi a tutti, ascolta tutti. Sorridi ancora, non dire mai di no. Lo specchio del bagno rimanda un immagine preoccupante, la temperatura sale e fra poco mi addormenterò sulla scrivania. No, aspetta, c’è uno che vuole informazioni ma non sa su cosa, bisogna aiutarlo. Perlomeno concedergli un poco di attenzione, che di questo ha bisogno, solo di questo. Potrei persino raccontargli, con tutti i particolari possibili, “Delitto e castigo”, sarebbe contento lo stesso. Ma non ne ho voglia, sono malato, prendo solo nota e prometto che lo richiamerò. Fuori fa un freddo cane, tira un vento di tramontana che levati, il caffè me lo faccio portare. Non serve a nulla,lo stordimento non si attenua. Leggo qualche circolare e sottolineo a matita parole a caso, magari domani capirò  perchè proprio quelle. Ecco, domani.

Il bel tenente

Pierina, mia nonna, di guerre mondiali se ne intendeva. Le aveva vissute tutte e due, infatti, lei che aveva sempre abitato in un piccolo paese appiccicato a un confine. A me e agli altri nipoti raccontava, talvolta confondendo una guerra con l’altra, dei bombardamenti, del razionamento, del continuo andirivieni di soldati. Prima a cavallo, poi coi camion e i carri armati. Ma soprattutto amava raccontare una storia in particolare, quella del bel tenente. La narrava spesso, come gli anziani che quando perdono la capacità di trattenere il presente, si rifugiano in un passato in cui immagini in bianco e nero ormai sbiadite assumono colori più brillanti, si riempiono di dettagli. E infatti, ogni volta, la storia del bel tenente si arricchiva di particolari, di episodi inediti, di nuovi personaggi. La seconda guerra mondiale era ormai alla fine, era arrivato l’autunno del 44, raccontava Pierina, e i tedeschi in ritirata dal sud si erano accampati proprio qui, dove adesso c’è tutta questa campagna. Avevano piantato le tende per i soldati vicino al ponte sul torrente, mentre gli ufficiali si erano presi la scuola elementare, quella che adesso non c’è più. I ragazzi prendono lo scuolabus e vanno a studiare in città. I tedeschi non erano così cattivi come ci avevano detto, sai? Se ne stavano tranquilli per conto loro, non davano fastidio a nessuno. Anzi, quando preparavano il rancio per la truppa, a mezzogiorno e alla sera, ne davano anche a tutti i bambini del paese, bastava presentarsi con una scodella. E se era finita la zuppa, ti davano del pane. Gli ufficiali, invece, mangiavano ogni giorno alla trattoria dell’Antonio. Quella c’è ancora, adesso la manda avanti il nipote, quello che fa le pizze. Ed è proprio lì che il tenente, io non conosco i gradi, me l’ha detto mio fratello che era un tenente, ha conosciuto la Maria.

Lui era davvero bello. Alto, biondo, con quella divisa nera sembrava proprio un attore del cinema. Perché al cinema ci andavo, cosa credi? Tutte le domeniche in parrocchia Don Luigi ci faceva vedere una pellicola che si faceva mandare dal vescovo. Ogni volta che c’era una scena d’amore, magari due che si baciavano, lui metteva la mano davanti al proiettore e recitava una preghiera. A noi veniva da ridere, Don Luigi lo sapeva, andavamo tutte a confessarci da lui, che capivamo benissimo cosa stava succedendo. Ma dopotutto era un bravo prete, ci dava sempre l’assoluzione. Il tenente era bello, bellissimo, ti dicevo, ma la Maria era ancora più bella di lui. Non aveva ancora vent’anni e tutti se la mangiavano con gli occhi, quando si fermavano all’osteria a bere un bicchiere di vino. Ma lei non dava confidenza a nessuno, era troppo seria. Suo padre era morto qualche anno prima, in Africa, quando c’era la guerra col Negus, lei era tanto piccola, poverina… Ma sì, il Negus, quello che comandava tutti quegli schiavi in Africa, quello lì. La Maria viveva con la mamma, proprio nella casa qui vicino, quella dove abita adesso il falegname, il Silvano. Insomma, quei due, appena si sono visti, apriti cielo! La Maria era sempre accanto al suo tavolo, a costo di trascurare tutti gli altri clienti. Quante volte doveva richiamarla l’Antonio! Vuole il pollo, signor tenente? Le piace questo vino, signor tenente? Davvero non vuole il caffè, signor tenente? Perché lui l’italiano lo parlava. Lo parlava bene per essere un tedesco. La moglie dell’Antonio, che vendeva il sale e i tabacchi, sempre dietro al banco solo per impicciarsi dei fatti di tutti, diceva che il tenente, prima della guerra, faceva il maestro di scuola a Berlino. Che era un’appassionato d’arte, che sapeva più cose lui del nostro, di maestro. Alla Maria, il tenente faceva un sacco di domande, la voleva sempre intorno. Le raccontava anche di casa sua, della Germania. E di tutte le città che aveva visto in Italia, durante quella lunga ritirata. Di tutto quello che era andato perduto sotto i bombardamenti. Tutti i giorni così, con il tenente che veniva in trattoria sempre più spesso, “un caffè, Maria, per favore!” e lei, lei che sembrava fosse lì solo per vederlo. Una sera lui l’ha aspettata fuori dall’osteria, dopo la chiusura. La moglie dell’Antonio, sempre quella chiacchierona, l’ha visto arrossire, quando ha chiesto alla Maria se poteva accompagnarla a casa. Era imbarazzato, il tenente. Comandava duecento uomini, la medaglia di Stalingrado al collo, ma davanti alla Maria, da solo, sembrava avere paura. Lei non ha detto nulla, ha solo annuito, allora lui l’ha presa a braccetto e si sono incamminati. Chi li ha visti quella sera il giorno dopo ha raccontato che parlava solo lui, mentre si faceva condurre per le strade del paese. Maria sorrideva solo ogni tanto, improvvisamente timida. Ma c’era anche chi diceva che un giro così lungo, per andare dall’osteria a casa della Maria, non si era mai visto. Lui non è entrato, anche se la madre ha insistito tanto. Dopotutto i tedeschi, anche se sembravano buoni, erano i padroni del paese e lui era il capo dei tedeschi. No, ha salutato tutte e due le donne e se è andato. Il giorno dopo non si parlava d’altro, naturalmente. Al tedesco piace la Maria! Il tedesco si è innamorato di Maria! I primi a chiacchierare di questa cosa erano quelli che si definivano partigiani, anche se in realtà più che ascoltare la radio di nascosto non facevano. Che ripetevano di continuo che i tedeschi erano il nemico, che non bisognava assolutamente avere rapporti con loro. Male faceva Maria a dare confidenza all’ufficiale. Ma la verità è che erano tutti gelosi, quei pochi uomini che, per un motivo o per l’altro, avevano scansato la chiamata alle armi. La Maria era una del paese, una di noi, mica poteva arrivare uno dalla Germania e portarsela via. Ma lui, che ne sapeva? Era solo un ragazzo, dopotutto, proprio come i nostri, anche se portava quella divisa. Se non ci fosse stata questa maledetta guerra, il tenente, anzi il maestro, a Berlino avrebbe corteggiato un’altra ragazza, bella come Maria. Ma lui era qui, adesso. E qui c’era Maria, che altro poteva fare? Non c’è colpa nell’essere giovani, come lo ero io allora. Lo sapeva anche Don Luigi, il prete. Quello delle penitenze piccole. La sera dopo la passeggiata era diventata ancora più lunga, così lunga che era buio quando Maria era rientrata a casa. E al buio, io e le mie amiche ne eravamo sicure, era successo quello che in parrocchia si nascondeva con una mano davanti al proiettore. Il tenente ama Maria!

E poi è arrivata la festa del paese, la festa della nostra santa. Tu lo sai che il paese ha preso il nome da una santa che…? Sì, va bene, non c’entra adesso, volevo solo spiegarti. Guerra o non guerra, la festa noi l’abbiamo fatta, come tutti gli anni. In piazza, a sentire la banda, c’eravamo tutti. Con quel vestito rosso che si era cucito da sola, Maria era più bella che mai, ma nessuno, proprio nessuno, la invitava a ballare. Tutte noi eravamo sempre in pista con l’uno o con l’altro, lei no. E allora ci ha pensato lui. E’ arrivato, sempre perfetto in quella divisa nera, e l’ha presa. Che coppia! E come la teneva stretta! Sembravano volare intorno alla piazza, mentre tutte le altre coppie si fermavano per guardarli. Quando la banda ha smesso di suonare sono rimasti soli, in mezzo alla piazza. Sciolti dall’abbraccio, l’uno di fronte all’altro. Nessuno parlava più, eravamo tutti ammutoliti. Poi, ancora lontano, il rombo degli aerei alleati che venivano a bombardare la ferrovia, la festa era finita.

Ma adesso qualcosa era cambiato, non potevamo più far finta di nulla. Non era più solo lui, il tenente, il problema. C’era dell’altro. E non bastavano più nemmeno le chiacchiere, i commenti maliziosi a mezza voce, quando lui, ormai ogni sera, la andava a prendere all’osteria. Una mattina, proprio sulla porta di casa sua, Maria aveva trovato scritte delle brutte parole. E per strada, nessuno più salutava né lei né sua madre. Che il tenente fosse innamorato di Maria, poteva anche andare. Dopotutto mica era colpa di Maria se lui le faceva la corte. Ma che anche lei fosse innamorata, questo proprio no. Questo era lo scandalo.

Alla fine dell’autunno i tedeschi se ne sono andati. Gli inglesi, così avevamo saputo, avevano sfondato le linee più est, il tenente e il suo reparto dovevano correre in aiuto. Me lo ricordo quel giorno, quando sono partiti. Lui in testa alla colonna, sul carro armato. La Maria sulla strada, a guardarlo andare via. In silenzio, come dopo quel ballo. Qualche giorno dopo sono arrivati gli altri, divisa diversa, lingua diversa, ma sempre soldati. Si sono accampati nello stesso posto, facevano le stesse cose. Però per la Maria le cose si sono fatte difficili. Adesso che non c’era più lui, adesso che non c’erano più i tedeschi, quelli che prima le parlavano solo dietro le spalle, quando entravano all’osteria la trattavano male, la insultavano. Più di una volta l’Antonio, che è sempre stato una brava persona, peccato che ha sposato quella pettegola, è dovuto intervenire per difenderla. Quando non ce l’ha fatta più a sopportare gli insulti, le cattive parole, le minacce, la Maria ha preso su sua madre e se è andata. Qualcuno diceva a Mantova, altri a Milano. Quando la guerra è finita se sono andati via anche gli altri, gli inglesi. E tutto qui ha ricominciato a funzionare come prima.

Ma lui, lui, il tenente, è tornato. Quattro, cinque anni dopo, è tornato. Qui, in paese. In borghese faceva un altro effetto, ma era sempre bello. Cercava la Maria, ma non sapevamo dirgli dove era andata. Non sapevamo nulla. Si è fermato una settimana, il tenente. All’osteria raccontava che faceva di nuovo il maestro, adesso insegnava l’italiano in qualche scuola, a Berlino. Continuava a chiedere di lei non si dava pace. Quando è ripartito ci siamo accorti che gli volevamo tutti bene, anche quelli che allora l’avrebbero ammazzato volentieri, quel crucco cosi gentile. E’ salito sulla sua piccola Volkswagen ed è tornato a casa, in Germania. Povero tenente… Perché mi guardi così? E’ tutto vero, sai? Sono vecchia, non rimbambita!

Expo 2016

Stamattina, sulle scale della metropolitana, Piazzale Cadorna, ho incrociato un signore. Distinto, ben vestito, ma con un’aria terribilmente confusa. Non che non si incontrino mai persone del genere, alle sette del mattino in luoghi così affollati, qui a Milano. Anzi, è piuttosto comune. Quello che mi ha incuriosito, però, è quello che teneva in mano. Un biglietto d’ingresso per Expo. Come credo sappiano tutti, la kermesse gastronomica mondiale si è conclusa a ottobre scorso, con tanto di fuochi d’artificio, albero della vita pronto a decollare e tante polemiche. Sul numero dei visitatori, sull’ammontare degli incassi, sulla reale utilità dell’evento, ecc. Polemiche alle quali, al momento, non sono interessato. Che la vera questione è un altra. Dove stava andando, quel signore dal cappotto color cammello? Stava ancora cercando il mezzo giusto per raggiungere la fiera? Dopo aver vagato per tre mesi tra metropolitane, passanti ferroviari, autobus? Certo, a volte orari e tabelloni sono di difficile interpretazione, è una fatica tremenda capire qual’è la tariffa, il biglietto giusto. E forse lui, straniero certamente, ha viaggiato giorno e notte tra Vigevano, Como, Monza, Cantù, Bergamo. Scambiando osterie e ristoranti per i padiglioni della Cina o del Kazakistan. Involtini primavera, pulenta e minsultin, kebab e pioda. Si mangia bene, qui a Expo, non capisco perché i giornali sono pieni di lettere di gente che si lamenta. Oddio, dir la verità, è da un po’ che non ne leggo più, vuoi vedere che erano solo una trovata pubblicitaria? Piuttosto non capisco nemmeno come mai, sulle guide turistiche di Milano, non si parla di tutti questi laghi, delle montagne. Al massimo una foto del Duomo, del teatro alla Scala. Ma perché non pubblicizzare anche queste bellezze naturali? Questa campagna, questi boschi? Gente davvero strana, questi milanesi. Forse a loro non piace, ecco. Preferiscono lo shopping e gli aperitivi. Io invece mi diverto tantissimo, pensa che volevo fermarmi solo una settimana e invece… E ci sono ancora tantissimi padiglioni da visitare, davvero grande questa esposizione. Oggi, per esempio, vado a vedere quello della Russia. Sono solo poche fermate di metropolitana, si scende in Via Sesto San Giovanni e poi ci sono giusto due passi. Bello il padiglione, stupenda quest’architettura deliziosamente retro che rimanda al passato. E il nome del ristorante calza proprio a pennello, la Casa del Popolo.

Lunedì

E’ un lunedì fiacco, quasi quanto la domenica che l’ha preceduto. Non piove più, è vero, ma la città non si è ancora ripresa dal mezzo diluvio di ieri e nelle pozzanghere affondano le automobili che si muovono a fasi alterne, regolate da semafori che non si fermano mai. Milano si sveglia piano piano, con le serrande dei bar appena tirate su, cinque minuti per scaldare la macchina e i caffè cominceranno ad essere serviti. Tranvieri in divisa aprono le porte per la prima corsa, timbrate i biglietti, dai, che partiamo. Pacchi di giornali vengono scaricati davanti alle edicole. C’è di tutto, dal Corriere a Novella 2000. Bianco e nero e foto a colori. Gol di testa e scandali a poco prezzo. La sigaretta accesa, il signore con la barba li ripone su scaffali dietro un vetro.La metro gira già da un po’, dalle scale mobili escono giacche e cravatte, tute da lavoro, jeans sdruciti. Aprono le scuole, sui marciapiedi, zainetti colorati in fila indiana si avviano lentamente. Hai studiato, vero? Guarda che ti interroga, oggi. Qualcuno devia verso il parco, oggi niente lezione, ci penseremo dopo a trovare una scusa. Fa freddo però, meglio imbucarsi da qualche parte. Conta i soldi, che qualcosa dovrai pur prendere. I piccoli negozi, quelli con una cassa sola per venderti di tutto, hanno già la coda fuori. Carrellini e chiacchiere di quartiere, ci sei pure tu? Che ci fai da mangiare al marito? Le ceste del pane sono pronte: rosette e ciabatte, pita e baguette. Il padrone è bengalese, cinese, egiziano, rumeno. Di fianco il negozio del barbiere, chiuso. Per lui la domenica non è ancora finita. Più in là una tabaccheria coi gratta e vinci e i biglietti di qualche lotteria che aspettano il prossimo vincitore. Milano sa anche essere generosa, ogni tanto. Adesso aprono anche i negozi di lusso, giapponesi pronti a fotografare, carte di credito esibite come gioielli. Donne bellissime e uomini sempre di fretta. Basta.

Il terzo uomo

Rispondendo alla richiesta di qualche lettore di questo blog, sono solo sedici ma non mi scoraggio, Manzoni ne aveva solo otto in più, oggi scrivo di San Galdino. Ricordate? Ne ho accennato giusto ieri, giorno di Sant’Ambrogio, i santi patroni di Milano sono tre. Ambrogio, Carlo Borromeo e, appunto, il misconosciuto Galdino.

Diciamo subito che Galdino è certamente il più sfortunato dei tre. L’Ambrogio, con un’astuzia tipica da avvocato, aveva scelto il tempo giusto per finire annoverato fra i quattro massimi dottori della Chiesa, insieme a gente del calibro di Sant’Agostino. Carlo, invece, nato nel XVI secolo, e con già qualche prete in famiglia, si era intruppato, con Ignazio di Loyola e Filippo Neri, nel gruppo dei riformatori della Chiesa. Vero che erano tempi duri, quelli del Borromeo, gli era persino capitato di essere bastonato da dei frati, minacciato dalle suore, preso a schioppettate da un protestante. Ma intanto a Trento aveva fatto un figurone con l’idea dei seminari e con la sua insistenza sul celibato dei sacerdoti. Poi, con decisioni ferree, aveva soppresso qualche ordine, messo al rogo streghe e svizzeri. Giusto il necessario per passare alla storia e venir celebrato con tanto di statuone ad Arona.

Il Galdino, invece, già di natali non particolarmente nobili, come invece erano quelli dei suoi due colleghi, alla guida della diocesi milanese ci starà poco. Buona parte, purtroppo, la manterrà solo in esilio. Agli inizi della sua carriera ecclesiastica, infatti, per il tutto il nord della penisola, si aggirava il più gran rompiballe che la storia italica ricordi. Federico, detto il Barbarossa. Federico, imperatore del Sacro Romano Impero, i milanesi proprio non li poteva vedere. Troppo indipendenti, sempre a pretendere di fare a modo loro. Già all’epoca infatti, proprio come adesso, nel capoluogo lombardo quel che contava davvero erano i danee. E a guidare la città, quindi, volevano essere mercanti e imprenditori che questi danee li facevano girare, dopo averli creati. Altro che dazi imperiali, imposte doganali per portare quattro sacchi di farina da Milano a Lodi, prebende e appannaggi per duchi, baroni e marchesi. Andate a lavorare, barboni! Chiaro che al Barbarossa questa cosa non andava giù. Ogni volta che veniva a Milano gli facevano dei gran sorrisi, gli promettevano il pagamento di qualche tassa, gli regalavano un paio di chiavi, ma basta così, perdio! Torni pure ad Aquisgrana contento, Imperatore, siamo suoi fedeli sudditi, ma qui ci arrangiamo da soli. Federico si arrabbiava da matti e faceva di tutto per contrastare la smania di indipendenza dei milanesi. Aizzava le città vicine: Lodi, Pavia, Cremona, contro Milano, regalava armi ai nemici della città, ogni volta che doveva andare a risolvere qualche faccenda in Italia, faceva accampare il suo esercito, cosa che significava saccheggi e violenze per gli abitanti, sempre nelle vicinanze del capoluogo meneghino. Un gran rompiballe, appunto. E non pago di tutto questo, volle mettere il naso anche in campo religioso.

Ed è proprio qui che entra in gioco il Galdino. Arcidiacono della Cattedrale, al momento dello scisma papale del 1159, quando la Santa sede elegge Alessandro III e il Barbarossa, invece, dopo aver comprato alcuni Cardinali, cerca di imporre Vittore IV, Galdino prende le parti del candidato romano. Tutta la Curia milanese, in realtà sostiene Alessandro, ma Galdino ne è il partigiano più veemente. Federico, figuriamoci, coglie la palla al balzo. Mette in moto l’esercito, viene giù dalla Germania e pone sotto assedio Milano. Una volta conquistata la città ne ordina la distruzione. Che compiranno, comunque lodigiani, pavesi, comaschi, novaresi e cremonesi (Milano stava sulle balle a tutti quanti). Si porta via, come abbiamo già detto altrove, le reliquie dei Re Magi, fa tirare giù un sacco di chiese, imprigiona il Galdino per sei mesi. Poi liberato, questi se ne va col Papa, quello vero, Alessandro, a Genova, in Francia, in Sicilia, a Roma. Fatto cardinale, viene poi nominato Arcivescovo di Milano. In esilio, naturalmente. Solo quando la Lega Lombarda (quella del Carroccio non quella di Salvini), riesce a cacciare il Barbarossa dai territori milanesi, Galdino può prendere possesso della sua sede. Arriva a Milano travestito da pellegrino e combina un rebellot. Depone tutti i sacerdoti ordinati da Vittore, nomina vescovi fedeli a lui e al Papa a Como, Vercelli, Asti, Cremona, Brescia. Sembra sia tornato Ambrogio, si dice in giro. E’ caritatevole con i poveri, proprio come il suo predecessore. Ha un occhio di riguardo per quelli che sono finiti in prigione (sempre questo Vittore, giusto per dire..), per debiti. La città è da ricostruire, dappertutto solo macerie. Fa restaurare la Cattedrale, insegna le preghiere. Ma anche lui, sempre la solita mania, la mette giù dura con gli eretici, questa volta sono i catari. Non li brucia, d’accordo, ma proprio non li sopporta. Ed è proprio durante un sermone contro quest’eresia che gli viene un coccolone a Santa Tecla.

Finché Milano resterà sotto il dominio degli Asburgo, quello di Galdino, sarà un nome vietato. Tanto era legato, appunto, alle lotte contro il Barbarossa. E a parlarne poco, ce ne siamo quasi dimenticati. Galdino, chi era costui?

Underground

Nelle gallerie che percorrono, sottoterra, questa città, grandi tubi dove treni su rotaie di gomma sfrecciano avanti e indietro, si ritrova un’altra umanità. Quella che sotto i display luminosi, indicano tempo e direzione, prepara qualche strumento. Violini, fisarmoniche per bambini in fuga dalla scuola, chitarre e sassofoni per chi ha qualche anno in più. Salgono sulla prima carrozza e percorrono tutto il treno. Un saluto di buon augurio e poi qualche nota. I passeggeri seduti il più delle volte fanno finta di non vedere, di non sentire. Del resto gli smartphone d’ordinanza sono sempre a portata di mano. il bicchiere di plastica per le offerte non si riempie mai. Nemmeno quando le carrozze si svuotano all’ultima corsa. Sulle banchine delle stazioni ci sono i mercatini, coperte stese per terra, pieni di oggetti in vendita, per i quali dovrai sicuramente contrattare. Ombrelli, quando, proprio come oggi, piove. Berretti, calze, scarpe made in China. Tutto un armamentario tecnologico fatto di cuffiette, batterie, cavi tra i più strani, custodie di plastica. Tutto si compra a due euro o poco più. Tutto falso, tutto taroccato, naturalmente, anche la felpa e la sciarpa del Milan. Quella la compri, originale, giusto alla fermata di Sant’Ambrogio (guarda che caso, anche oggi).

Ci sono anche quelli che si trascinano dietro, in borse di nylon o in una scatola, tutta la loro casa. Condannati a viaggiare in eterno senza una destinazione. Si portano dietro il peso di anni che non sono riusciti a dare nessuna sicurezza, che sono passati senza lasciare nulla che il loro ripetersi inutilmente. Bevono un sorso da una bottiglia tirata fuori da una tasca, salgono per ultimi. Hanno imparato a non avere fretta. E poi chi canta, senza un perché, una ragione. A squarciagola, canzoni di un altro secolo, che fai fatica a ricordare, che non hanno più un autore, un posto dentro la tua vita. Anche se li guardi con aria di riprovazione, anche se tutti i passeggeri li guardano, infastiditi, con riprovazione, continuano a cantare. Non tralasciano nemmeno una strofa. Cambiano treno, scendono, salgono, ma non smettono.
Quelli che rimangono ore davanti alla mappa affissa alla parete. Cercano una via, un viale, una piazza, ma non sanno trovarla. Percorrono con l’indice tutte le direttrici dei tubi. Quello, rosso, quello verde, quello giallo. Si perdono, borbottano tra se qualcosa, il nome di quella benedetta via, forse. Rialzano il capo sul quel groviglio di vie e di binari stampato a 4 colori. Non ce la faranno mai. Forse non devono davvero andare là, stanno solo cercando di ricordare qualcos’altro della loro vita. Qualcosa che è già successo, ma non sanno rammentare quando e perché.
E poi gli atleti in giacca, cravatta e 24 ore. Sempre di corsa. Spingono per uscire, corrono sulle scale mobili, hanno sempre qualche appuntamento, sono sempre in ritardo. Schivano violini e fisarmoniche, non si fermano ai mercatini, non hanno bisogno della mappa. Hanno già tutto in testa, sanno già tutto. Persino che sopra, in cima alle scale, c’è ancora una città.

Ambrogio

Tutti a casa, oggi. E’ Sant’Ambrogio che, come ben si sa, è il patrono di Milano. In realtà divide tale incarico anche con Carlo Borromeo (quello della statua ad Arona) e San Galdino, ma la festa è dedicata solo a lui. Che non poteva non diventare prima vescovo e poi appunto patrono di questa città, dato che prima di indossare l’abito talare, esercitava come avvocato. E a Milano, prima ancora che di santi, c’era bisogno di avvocati. Come ce n’è bisogno anche oggi, peraltro. Ne abbiamo ventimila, tutta la Francia ne ha meno del doppio. Non che siamo litigiosi, per carità, ma Milano è davvero complicata. Comunque, Ambrogio, che veniva da Treviri, proposto per l’alto incarico religioso dalla volontà popolare, si fece pregare, è proprio il caso di dirlo, per qualche mese prima di accettare. E addirittura, per svincolarsi dall’invito, cominciò a frequentare, lui che pur essendo un leguleio era una persona a modo, donne di malaffare, ricevendole pure nella sua magione meneghina. Non funzionò, il popolo, probabilmente abituato ai costumi degli altri prelati, non volle sentire ragioni, vescovo doveva essere. Ambrogio allora tentò la fuga, ma ci si mise in mezzo l’Imperatore di allora, tale Flavio Valentiniano, scarsamente dotato di abilità diplomatiche e di pazienza, che gli intimò di accettare. Narrano le cronache milanesi che se la cavò benissimo, sempre pronto a mettere in gioco le sue capacità per i più poveri e i più deboli. Trovò il tempo di bandire l’eresia ariana, fece più di un cazziatone al nuovo imperatore, Teodosio. Insomma, tanto si diede da fare che, ancora ai giorni nostri, a Milano, in chiesa cantiamo in modo diverso dal resto d’Italia. E anche il Carnevale lo festeggiamo quando ci pare.
Siccome Sant’Ambrogio, la ricorrenza non il santo, ha la peculiarità di cadere giusto il giorno prima dell’Immacolata Concezione (di Maria parleremo un’altra volta, però), a Milano è decisamente una festa pesante. Sono due giorni da dedicare alla città. Con tanto di tram muniti di luminarie e vie dello shopping tirate da battaglia. Vero, si danno anche gli Ambrogini d’oro e il vescovo di adesso, non mi ricordo come si chiama era molto meglio quello di prima, pronuncia un’omelia epocale.  Ma il patrono è soprattutto la prova generale del Natale. Quello commerciale, intendo. Tanto che, come ogni anno, io preferisco rimanermene a casa per non affrontare le orde barbariche che, fin dalle prime ore del mattino, vengono scaricate dai treni regionali a Cadorna o a Garibaldi. Pronte ad invadere, a seconda del budget disponibile, Corso Buenos Aires o Via Montenapoleone. I più coraggiosi si dirigono al Castello Sforzesco, ma solo loro. Gli Obei Obei sono uno spettacolo per stomaci forti. C’è movimento, su quelle vie, più che attorno alla piazza dedicata al santo, con la Basilica, che è invece a due passi da San Vittore.

In realtà, una volta, solo una, ci sono stato. Proprio in questo giorno, proprio in quelle vie. Ma vi prego di capire, abitavo qui da poco, ero appena arrivato, non sapevo ancora nulla. Ancora mi spacciavo, mesi dopo il mio trasferimento, per uno arrivato il giorno prima con la Vaca Nonesa o giù di lì. Per dribblare le domande sulle fermate della metro o sugli orari dei tram. Insomma, sono rimasto sconvolto dalla fiumana di gente che si accalcava fuori e dentro le vetrine. Mi sono fatto clamorosamente fregare da un venditore di caldarroste, ho mangiato in un McDonald affollato come la barca di Caronte. Alla fine ho pensato di rifugiarmi, mi pareva proprio il caso, nella basilica del festeggiato. Milanese d’adozione come lui, gli potevo certamente chiedere coraggio e forza d’animo per affrontare quell’esodo fuori stagione. Mi avrebbe senza dubbio fatto la grazia. Ma, causa la mia scarsa conoscenza della geografia cittadina, all’epoca non c’era ancora Google Maps, ho sbagliato chiesa. E sono finito a Sant’Eustorgio. Quello prima, insomma. Bel personaggio anche lui, comunque. Famoso per aver portato a Milano, direttamente da Costantinopoli, le reliquie dei Re Magi. Ma non venite apposta per vederle, però, se le è portate via il Barbarossa qualche secolo dopo e sono finite a Colonia. Lui, l’Eustorgio, lo festeggiano il 18 settembre.

Pezzi da otto

L’uomo dai capelli bianchi, col pappagallo appollaiato su una spalla, si avvicina al tornello e annulla il biglietto. Si, perché siamo in una stazione ferroviaria suburbana di Milano, affollata di pendolari e disseminata di banchetti improvvisati che vendono un po’ di tutto. Si incammina lungo il marciapiede a passo lento, non ha fretta, il treno, come recita il tabellone, partirà solo fra un quarto d’ora. Parla, l’uomo, al suo pappagallo. Gli chiede come sta, se va tutto bene. Il grosso cacatua  emette qualche vocalizzo,  sembra contento di salire in carrozza. Non degna nemmeno di uno sguardo i piccioni, che saltellano attorno all’uomo curiosi. E’ di ben altra nobiltà, lui.

E di altri luoghi, dove i treni, se davvero sono arrivati anche lì, sono certamente diversi e mostrano dal finestrino un altro paesaggio. L’uomo finalmente sale in carrozza, si siede poco discosto dalla porta. Il pappagallo osserva con sussiego gli altri passeggeri. Ragazzi e ragazze con lo zainetto, impiegati in giacca e cravatta, gente che trascina a fatica grandi borse con marchi in franchising.

L’uomo chiude gli occhi, proprio quando il treno si avvia. Forse il dondolio della carrozza gli ricorda un altro viaggio che ha fatto tanto tempo fa. Quando, più giovani, lui e il suo pappagallo,  avevano altre rotte da percorrere. Quelle dei mari del sud, naturalmente, su un vascello pirata. E sul treno, sogna, sta salendo il suo equipaggio. Gambe di legno e uncini. Bende sull’occhio, sciabole allacciate alla cintura. Perché quest’uomo posato, che ormai dorme, mentre il treno attraversa la periferia, mi ricorda i libri della mia adolescenza, le storie di Salgari e di Stevenson. Bandiere nere con teschi e ossa incrociate,  abbordaggi e città conquistate, figlie del vicerè da rapire.

E forse è davvero così. Quei due sono proprio Long John Silver e il Capitano Flint. Giunti a Milano per qualche strano accidente del destino, dopo essere fuggiti da un isola, con un forziere pieno di ghinee d’oro. Hanno un piccolo appartamento in periferia, adesso. Silver va a fare la spesa al supermercato, ogni tanto gioca qualche spicciolo al lotto.  Legge il Corriere della Sera, gli piace tanto, lui  è cuoco oltre che pirata,  la cucina meneghina. Il Capitano Flint , dal balcone di casa, cerca sempre, in fondo all’orizzonte, il mare. Alla sera, Silver racconta al bar  all’angolo, davanti a un bicchiere di rum, le sue avventure. Il pappagallo sottolinea, gracchiando,  i momenti più drammatici, quando i cannoni cominciano a tuonare. Chi entra e esce, sorride, proprio come si fa con un anziano un po’ svanito. Ma sono belle storie, dopotutto. Meglio di quelle della TV