La macchina nuova

Vincenzo, quella macchina, la 500, se l’era comprata con i risparmi di una vita. E già pregustava, mentre firmava tutte le carte che il concessionario gli metteva davanti, una dopo l’altra, lo stupore e l’ammirazione dei vicini di casa. Certo, qualcuno di loro aveva già la Vespa, quella strana motocicletta con le ruote piccole, ma, quasi tutti giravano ancora in bicicletta. La sua, sarebbe stata la prima automobile del quartiere. Quando si ritrovò con le chiavi in mano, si ricordò però di una cosa.
– “Senta, ma è difficile da guidare?”
– “Certamente no! E una macchina come tutte le altre. Da quanto tempo ha la patente?”
– “La patente? Quale patente?”
– “Non ce l’ha?”
Il concessionario, allora spiegò ad un allibito Vincenzo, che per guidare un automobile, non solo quella, tutte le automobili, ci voleva la patente. La patente di guida, appunto. Che non era una cosa che bastava solo chiedere, come una carta di identità, un certificato del Comune. Bisognava fare una scuola, dare degli esami, essere promossi.
La macchina gliela portò a casa uno dei meccanici dell’autosalone. E con una maestria che impressionò Vincenzo, fu parcheggiata dentro il locale che fino a ieri usava per tenere tutte le cianfrusaglie che non trovavano posto altrove. Che, finalmente, era diventato un garage a tutti gli effetti. Rimasto solo, Vincenzo, si sedette dietro al volante. Provò a girarlo, non sembrava molto faticoso, guidare non doveva essere poi così difficile. Quasi senza volere, si ritrovò a borbottare brum brum mentre girava quel volante sempre più rapidamente a destra e a sinistra. Sarebbe stato bello, quando l’avrebbe guidata sul serio, ne era sicuro. Poi, tutte le leve e i pulsanti, questo a cosa servirà? E questo? Il clacson lo spaventò, dentro il piccolo locale risuonò amplificato a dismisura. Ancora, dai! Ancora!
L’autoscuola, quella che gli aveva consigliato il meccanico, era vicina alla fermata dell’autobus. La signora tanto gentile gli aveva chiesto di portare delle fotografie, un certificato medico e altri documenti che lui si era procurato durante la settimana. C’era ancora da pagare la prima rata, pazienza, avrebbe fatto qualche piccola economia. E così, ogni giovedì sera, Vincenzo, insieme ad altri, cominciò ad apprendere il significato dei segnali stradali, il funzionamento del motore, come si dovevano usare gli indicatori di direzione (le frecce, suvvia), quando era necessario accendere i fari. Poi, finita la lezione, prima di salire in casa, faceva qualche esercizio in garage. Si fa così, questo è per accendere luci, questo è il tergicristallo. Apriva il cofano, per cercare le candele, lo spinterogeno, il radiatore. La domenica, invece, armato di spugna e stracci, si dava da fare fino a quando le cromature dei paraurti brillavano come specchi e la carrozzeria lucida, più immacolata di un abito da sposa.
E finalmente venne anche il giorno delle esercitazioni di guida. L’istruttore, dopo avergli dato qualche rapida spiegazione, si sedette accanto a lui e gli fece cenno. Andiamo. Vincenzo girò la chiave e il motore, quello vero, si avviò. Forza, la marcia adesso. La macchina si avviò saltellando, Vincenzo, pallido in volto, girandosi verso l’istruttore cominciò a urlare.
– “Adesso? Che faccio, che faccio?”
– “Stia calmo, guardi avanti, E non si preoccupi, ci sono io”
Calma, calma. Ormai la macchina si era avviata e Vincenzo, abbracciato al volante, non sapeva più che pesci pigliare. Di lato cose che si muovevano, davanti una curva
– “Si calmi, le ripeto. Guardi la curva. Adesso giri il volante piano a sinistra”
– “A sinistra? Dov’è la sinistra. Da che parte?”
E girò a destra, proprio contro il muro. Rumore di lamiere, il cofano divelto, il motore ancora girava. L’istruttore scese, scuro in volto.
– “Direi che per oggi basta, non crede? Forse è meglio che ci rivediamo un altra volta”
– “No. Senta, non l’ho fatto apposta. E’ che davvero…”
– “La prossima volta.”
Vincenzo tornò, abbacchiato, a casa. Scese subito in garage. La sua 500 era sempre lì, ferma, ad aspettarlo.
– “Senti, non è andata molto bene, oggi. Non è che ti offendi se aspettiamo ancora un po’? Tanto qui stai bene. Verrò ogni sera, a farti un po’ di compagnia. Scusami tanto, ma non mi sento ancora pronto.”

E niente, sono passati gli anni, ma Vincenzo, a scuola guida, non c’è più tornato. Ogni giorno scende giù in garage, ormai lo chiama così anche lui, si siede al volante e racconta tutta la sua giornata. Progetta viaggi, studia percorsi. Partiremo presto, sai? Qualche volta si diverte ancora a imitare il rombo del motore, brum brum, dai che la strada è libera. La domenica, ancora, è tutta dedicata alla sua regina. La carrozzeria luccica, i tappetini sembrano nuovi. E, credeteci, si sente l’uomo più felice della terra.

Thunder road

Domenico, Mimmo, anzi, “il Mimmo”, quella corsa in automobile, se la ricorda ancora. Nonostante gli anni, il tempo passato. La macchina lunga e rossa, la sensazione della velocità, le curve che sballottavano tutti nell’abitacolo. Il rombo del motore. E le grida terrorizzate delle ragazze, lo schianto contro l’albero. Era uscito vivo solo lui, da quelle lamiere piegate, contorte. Con le gambe inutilizzabili, ma vivo. Una volta dimesso dall’ospedale, aveva dovuto rispondere alle domande di un giudice che voleva sapere cosa era successo davvero, quella sera. Dove erano stati, se avevano bevuto, chi aveva deciso di prendere quella strada. Era importante saperle queste cose, ripeteva, il magistrato. L’assicurazione, come biasimarla, non poteva certamente pagare i danni di un sinistro, il modo in cui lui definiva l’incidente, che certamente tutti loro si erano andati a cercare. A Mimmo, tutte queste questioni non interessavano, rispondeva in modo distratto, affermava di non rammentare nulla. Se erano andati a ballare? Forse. E non si erano poi fermati all’Osteria del Ponte? Aldo, che guidava la macchina, quanto aveva bevuto? No, Mimmo non sapeva o non voleva rispondere. Erano morti tutti, tranne lui. Ed era questo, proprio questo, che gli impediva di approfittare delle blandizie degli avvocati che gli promettevano un risarcimento favoloso. Si era salvato e questa era la sua colpa. Che, ne era sicuro, l’avrebbe accompagnato per sempre. Colpa che non poteva certo espiare con quella carrozzina che d’ora innanzi avrebbe accompagnato la sua vita. Era una pena fin troppo lieve.

Quella piccola pensione che lo stato si degnava di passargli, invece l’aveva accettata, dopotutto non c’entrava niente con quello che era successo. La prendevano in tanti, anche quelli con le gambe, e tutto il resto, funzionanti. E fin da subito l’aveva arrotondata con qualche lavoretto a domicilio. Che lo faceva sentire meno in debito con chi, ogni mese, gli faceva avere quelle poche banconote che dovevano compensare quello che aveva perduto. Anno dopo anno, con le solite cose da fare, da lunedì al sabato. Lavorare, cucinare, riassettare la casa, guardare la TV. Dove, Mimmo ha visto tutto, sono passati Papa Giovanni, Kennedy, l’uomo sulla Luna, Chernobyl. In attesa della domenica, che, dopo quella sera, è il giorno dedicato a loro, solo a loro. Lo sarà sempre. E sempre ci sarà un luogo per andarli a ricordare.

L’Osteria del Ponte, non c’è più. E’ diventata una di quei bar dove la clientela ordina solo cocktail ricercati e panini sfiziosi. Ma lo conoscono ancora tutti, tutti sanno chi è. E quando arriva, sulla sua carrozzina, gli fanno trovare il suo mezzo litro sul tavolo. Per brindare ad Aldo, Marina, Silvia. Che erano tutti giovani, come lo era lui, allora. Talvolta Mimmo, non gli importa se qualcuno lo sta a sentire, racconta di Marina. Di come era bella, del vestito che indossava quella sera. Oppure di Aldo, di Silvia. E il barman, senza che nessuno glielo chieda, abbassa il volume della musica.

Son rose rosse…

Certo che l’ho sentito il botto, maresciallo! Che diamine! Non si vedeva nulla, lo giuro, tutta quella pioggia, niente luna, era tutto scuro. Avevo i tergicristalli che andavano a manetta, sa? Ma non riuscivo a vedere più in là di qualche metro. No, non andavo veloce, non ero ubriaco, non mi crede? Stavo andando da Giuseppe, quello del bar, non mi dica che non lo conosce, lo sa anche lei che anche se adesso riga dritto, qualche anno fa… A fare cosa? Ma niente, siamo amici, ci siamo conosciuti in gabbia Sì, sono stato dentro anch’io, e lei lo sa benissimo, come sa che io non c’entravo niente in quella storia. E’ stata la donna del calabrese a denunciarmi, perché io non volevo più continuare con lei. Era bella, sa? E suo marito, il calabrese, appunto, non c’era mai, era sempre dall’altra parte del confine a mandare avanti gli affari dei suoi amici. E lei si sentiva sola. Io le portavo i soldi che lui le mandava dalla Francia. Portaglieli oggi, portaglieli domani… Ma non è durata tanto, ad un certo punto mi hanno fatto sapere che se il marito se ne accorgeva, avrei fatto una brutta fine. L’ho mollata. Lei, per vendicarsi, mi ha tirato dentro in quella storia. Ma io con la droga non ho mai voluto averci a che fare. Rubare, certo, ho rubato. E qualche tizio troppo curioso l’ho menato per bene. Ma niente più di questo, maresciallo. Si, scusi, questa notte, certo. Non ho visto nulla, ma ho sentito il botto, glielo stavo dicendo. Mi sono fermato, ho frenato a fondo, no, glielo giuro ancora, non ero ubriaco. Ho bevuto dopo. Sono sceso dalla macchina e l’ho visto lì per terra. Non sembrava ferito, ma non si muoveva, non respirava. E c’erano tutte quelle rose, sparpagliate intorno a lui. Poi, guardando meglio, ho visto che aveva la testa spaccata. Da quei capelli ricci usciva il sangue. Rosso come quelle rose. Ho avuto paura, maresciallo. Non era colpa mia, non si vedeva niente e lui era in mezzo alla strada. A vendere i suoi fiori. Se riusciva a venderli, che su quella strada passano solo macchine che vanno a tirar su le puttane. e non si comprano i fiori, le rose, per una puttana. Sono scappato, maresciallo, sono scappato. Che dovevo fare? Sono risalito in macchina e sono scappato. Non ricordo che giro ho fatto, dove sono stato, so solo che mi sono ritrovato da Giuseppe, al suo bar. Sono entrato e ho chiesto da bere. Giuseppe ha capito subito che c’era qualcosa che non andava, ma non mi ha chiesto niente. Mi ha dato tutto quello che volevo, ho bevuto tanto. Ed ero quasi riuscito a calmarmi. Stai tranquillo, mi dicevo, nessuno ti ha visto, nessuno può dirti niente. Non sei stato tu. C’è stata una disgrazia, ma tu non c’entri nulla. Tu eri qui, al caldo, a berti una sambuca. Quel che è successo fuori non ti riguarda. Ma poi è entrato quel tizio, aveva delle rose in mano. E sembrava il fratello di quello che avevo lasciato laggiù, sull’asfalto. Lo stesso viso, gli stessi occhi. Faceva il giro dei tavolini, dove vedeva una coppia, chiedeva all’uomo se voleva comprare una rosa per la sua compagna. Era gentile, non insisteva, chiedeva solo. Quasi tutti lo mandavano via, ma lui non si scoraggiava, continuava a girare. E ad un certo punto è venuto da me, anche se ero solo, al banco. E mi ha chiesto se volevo comprare un fiore per la mia ragazza. Io non ce l’ho una ragazza, maresciallo. Dopo quella storia non ho avuto più nessuna. Ma lui me l’ha chiesto lo stesso. E mi guardava, aspettava una risposta. Ma io, maresciallo, non riuscivo a dire niente, e lui non andava via. Non ce l’ho fatta più, era come se lo sapesse, che avevo ammazzato suo fratello. Ammazzato e lasciato lì, solo, come un cane. E allora ho chiesto a Giuseppe di chiamarvi. Lui non voleva, naturale, lo sa benissimo che, se proprio volete, di cose che non vanno nella sua attività, ne potete trovare quante vi pare. Mi ha chiesto se ero diventato matto. E forse lo sono davvero. Ho dato a quello delle rose tutti soldi che avevo, gli ho chiesto scusa. Lui non capiva, non capiva perché gli stavo dando tutto quel denaro. Voleva darmi tutti i fiori che aveva. Non li ho presi e sono venuto qui da lei. E adesso, maresciallo, che succede? Che cosa mi faranno?