Non è giornata

Se tutte le volte che ho scritto “non è giornata”, avessi incassato un euro. offerto da qualche lettore di buona volontà, sarei ricco. Non tanto per la quantità di lettori, quanto per la frequenza della succitata espressione. Perché, in definitiva, non è mai giornata. Perché piove, perché c’è il sole. Perché ho troppo da fare, perché mi annoio. Perché sono solo, perché sono in compagnia. Insomma, per tutto e per niente, anzi, per tutto e niente in contemporanea. Per esempio non è giornata perché non ho niente da fare ma se arriva del lavoro comincio a lamentarmi che non è giornata. E’ evidente che qui si entra in un circolo vizioso. Appena il lavoro sarà finito non sarà comunque giornata e così via. All’infinito. Dovrei pensare, a questo punto, di essere l’uomo più sfortunato del mondo, oppure il depresso perfetto. Marchiato a fuoco dalla dea della sfortuna (esiste, poi?), o soggetto destinato, prima o poi, a comparire su tutte le riviste di psicologia del mondo (e sono certo che non mi piacerà un solo articolo, nemmeno uno). Ma in realtà non è nemmeno così, perché questo mia scarsa simpatia per il mondo e il resto dell’umanità, non assume mai una connotazione passiva. Una cosa, tanto per dire, tipo: “Uffa, ma sempre a me capita”. O ancora meglio: “Non mi piace nulla, non mi piace niente, non so fare niente”. Assolutamente no. La mia misantropia, per esempio, la vivo come qualcosa di dovuto, di necessario. Intendiamoci, non mi sento migliore degli altri, tanto da evitarne la vicinanza spocchia o una supposta superiorità. E nemmeno mi sento inferiore, tanto da sfuggire ogni confronto con gli altri, per paura di rimanerne sconfitto. Semplicemente non mi interessano. E non c’è un motivo particolare. Oppure si, ma non lo so spiegare, mi sfugge, perché oggi non è giornata. Non parliamo poi della mio scetticismo verso qualsiasi attività ludica. Qualsiasi sia la proposta, ancora, non è giornata. Magari domani, ma non oggi. Perché fa caldo, perché fa freddo, perché sono stanco, perché non mi devo stancare, perché non sono capace, perché ho smesso da anni, ecc. Insomma, non mi va. In quanto ai piaceri della gola e non solo, qui esce fuori la mia patologica contrarietà a qualsiasi cosa venga presentata in tavola o bussi alla mia porta. Troppo salato, troppo dolce. Troppo caldo, troppo freddo. Troppo saporito, non sa di niente. Era meglio la birra dell’altra volta, il vino sa di tappo. Ah no, è troppo alta, troppo bassa. Ma è bionda, ma è mora. Parla troppo, non dice una parola. Insomma, no. Anzi, sì ma però. Che il no ha sempre avuto qualcosa di definitivo che non mi è mai piaciuto, sta ha significare che qualcosa non ti è veramente piaciuto, o ti ha dato fastidio. Cosa che potrebbe far ipotizzare che il contrario ti piacerebbe o ti sarebbe perlomeno gradito. E questa è un eventualità che non voglio nemmeno prendere in considerazione. Perché, se si presentasse veramente, allora non potrei più dire che non è giornata. E allora dovrei prendere atto che non tanto dalla sfortuna sono bersagliato, non tanto da qualche forma atavica di depressione sono affetto. Ma che sono un banale, normalissimo, comune, rompicoglioni.