Buon Natale, signor Ministro

Egregio Ministro dell’Interno

Le scrive un cittadino, un laico, come ce ne sono tanti in questo paese. Nella casa dove abito, con la mia famiglia, non ci sono crocefissi, immagini sacre. A messa ci andiamo poco, solo in qualche ricorrenza, qualche volta lieta, qualche volta meno.

Ma vede, signor Ministro, nella nostra casa, tutti gli anni, non ne abbiamo mancato mai uno, di questo periodo, facciamo anche noi quel presepe di cui lei parla tanto. Perchè di una cosa, siamo convinti. Che quel bambino in una mangiatoia, dentro una grotta, non è solo l’immagine della Famiglia. Ma di tutte le famiglie, anche della mia e della sua, signor Ministro. Il simbolo di tutte le famiglie, che nonostante le difficoltà vogliono continuare a vivere, far nascere e crescere dei figli. E non solo, signor Ministro. E’ anche il simbolo della solidarietà, dell’aiuto reciproco, della condivisione. Maria, Giuseppe e Gesù, sono degli stranieri in Galilea. Stranieri che non trovano posto, che non sanno dove andare. Poveri, senza un tetto, senza cibo, senza nemmeno una culla dove adagiare il figlio che sta per nascere. E saranno proprio i poveri come loro ad aiutarli: pastori, contadini. Quel che succede dentro il presepio è un miracolo, un miracolo che fa nascere anche una speranza. Quello che accade questa notte, non accada mai più. Per nessuna famiglia, per nessun bambino.

Ma lei, signor Ministro, con il suo decreto che mette in mezzo a una strada perfino una donna in attesa un figlio, vanifica tutto. Ha cancellato quella speranza, ha reso inutile quel miracolo. Lei, signor Ministro, quello che rappresentiamo ogni anno in quasi tutte le case, è riuscito a renderlo ancora reale, duemila e più anni dopo. Signor Ministro, quell’uomo e quella donna incinta che non hanno da ieri un posto dove andare, non sono le comparse di una recita scolastica. Sono persone vere, come lei e come me. Se lo ricordi, se può, se ci riesce.

Signor Ministro, io e la mia famiglia abbiamo deciso che quest’anno il presepe, nella nostra casa, non ci sarà. Perchè ci sembra ipocrita, mentre succede quello che il suo decreto ha stabilito, mettere insieme qualche statuina sul davanzale della finestra. Perchè, il presepe, più di questo non è, se non ci rammentiamo, se non viviamo il suo significato. E a questa mera esibizione di statuine, signor Ministro, l’ha ridotto lei. Se lo ricordi, se può, se ci riesce

Però, signor Ministro, di una cosa la devo ringraziare. Perchè in una cosa, è riuscito. A far pensare, anche a un ateo come me, che se quel Dio che ha fatto dire a suo figlio “Ogni volta che farete queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40), esiste davvero, prima o poi, di quello che ha fatto lei, gliene chiederà ragione.

Buon Natale, signor Ministro.

 

Racconta mia figlia

Racconta mia figlia che, proprio ieri, un signore con la pelle un po’ più scura della sua, un signore nato in Africa, è andato a fare visita alla sua scuola. Racconta mia figlia che è entrato nella sua classe e si è seduto alla cattedra, al posto del prof. E racconta mia figlia che anche il signore aveva una storia da narrare, la sua. Della sua fuga da un posto dove la vita era molto, troppo difficile, dove avevano già ucciso suo padre. Racconta mia figlia che insieme alla madre e alle due sorelle più piccole, il signore ha intrapreso un lungo viaggio, che lo ha portato fino alle coste del Mediterraneo, in un paese chiamato Libia. Dove tante altre persone come loro, che cercavano di fuggire da un destino troppo gramo, attendevano l’occasione. Una piccola imbarcazione a malapena in grado di stare a galla, che li avrebbe portati via. Ma attendere il proprio turno, racconta mia figlia, non era cosa facile. Quasi nulla da mangiare, bande di disperati pronti a derubarti di quel poco che ti era rimasto, agenti di polizia dal manganello facile sempre disposti a picchiare qualcuno. L’attesa è durata a lungo, racconta mia figlia. Una volta sembrava quasi fatta, sembrava ci fosse posto anche per loro, su un gommone. Ma sono stati rimandati indietro. Ancora botte, furti, sopraffazioni. E giorni, settimane, mesi. Cercando di sopravvivere, in quel campo di fuggiaschi. Racconta mia figlia che quando finalmente era arrivato, questa volta era vero, il giorno della partenza, la famiglia aveva dovuto separarsi. La madre si era imbarcata con le sorelle più piccole su un imbarcazione, lui su un altra. Era l’ultima possibilità, non si poteva rinunciare. Racconta mia figlia che la madre, prima di separarsi da lui, gli aveva regalato tre caramelle, un tesoro, visto che nel loro paese natale, riceverne in dono una era già gran festa. E gli aveva detto di tenerle bene in serbo. Se si fosse trovato in difficoltà , avrebbe potuto mangiarne una e ricordare così quelle rare occasioni di festa, le sue sorelle, sua madre. Il viaggio era cominciato di notte, il mare era agitato, faceva quasi freddo. Stipato sul gommone, racconta mia figlia, racconta mia figlia, le mani in tasca a tenere nel pugno stretto stretto, quei tre pezzettini di zucchero, quello che sperava fosse il suo ultimo viaggio, era cominciato. La mattina dopo, quando il mare si era ancor più incattivito, aveva cominciato ad avere paura. Per sé e per la sua famiglia, l’altro gommone non si vedeva più, ma forse aveva solo preso un’altra rotta, Dio avrebbe pensato a tutti quanti. Racconta mia figlia che fu raccolto la sera, da una nave grande, tutta rossa. Che dopo poche ore lo aveva sbarcato in Italia. Poi il centro di accoglienza, le prime cure, parole in una lingua a lui straniera. E racconta mia figlia, la ricerca, il passaparola, avete visto una donna con due figlie? Erano sull’altro gommone, avete trovato anche loro? Telefonate, cartelli, se qualcuno le ha viste, le ha incontrate, mi avvisi, mi chiami, io aspetto. Racconta mia figlia che è stato tutto inutile. Nessuno aveva visto quella donna, le sue bambine. Lui intanto aveva trovato posto in una parrocchia, dava una mano un po’ a tutti, stava imparando a parlare l’italiano E poi un lavoro vero, la scuola serale. Ma non aveva smesso di chiedere, ad ogni connazionale, a chi arrivava, come lui, dall’altra parte del mare, di sua madre delle sue sorelle. Racconta mia figlia che lui , anche se non l’ha detto, non smetterà mai. E che alla fine della sua storia, in un silenzio di ghiaccio, prima di uscire dall’aula ha messo una mano in tasca e ne ha tirato fuori qualcosa. Tre caramelle.

Another time, another place

Sai, credo che le città abbiano una memoria. Noi forse abbiamo dimenticato, ma loro ricordano i nostri visi, le nostre parole, i passi consumati in tutte le vie. Tornare qui, allora, è cercare ad ogni angolo quello che eravamo, cercare di rivedersi, di rivederti. C’eravamo arrivati, questo non puoi averlo scordato, ne sono sicuro, con un treno davvero troppo lento per tutti i chilometri che ci aspettavano. Un treno su cui avevamo trovato posto a fatica, con i nostri zaini in spalla e i nostri vent’anni ancora tutti da spendere. Allora c’erano ancora le frontiere e doganieri seri e compunti. Ansiosi di esaminare passaporti e bagagli, non sia mai che potessero contenere cose vietate. Vietate in quel paese che, giusto proprio allora usciva da un economia programmata da piani quinquennali e dalle code ai negozi. A noi non hanno chiesto nulla, però. Era chiaro persino a loro che l’unica cosa che potevamo contrabbandare era solo la nostra voglia di stare insieme, noi e solo noi.

Siamo arrivati che era ormai notte, notte in una città a noi sconosciuta, ancora. Il cambia valuta, banconote colorate di cui ancora non conoscevamo il valore, un panino, il taxi. E la casa che avevamo affittato, fidandoci della parola di un amico. Non così bella come ce l’eravamo immaginata, troppo piccola, troppo distante dal centro. Tu non hai voluto dormire, in quel grande letto di legno che occupava praticamente tutto l’appartamento. Ci siamo distesi vicini, sul pavimento, sui sacchi a pelo che ci eravamo portati per ogni evenienza. E poi il sonno, fino al mattino.

E il giorno dopo, appunto, alla ricerca di una nuova sistemazione, ancora con gli zaini sulle spalle. Fu un tassista, a darci la dritta giusta, inviandoci da una signora che lui chiamava zia. Che probabilmente non era nemmeno sua parente, ma che ci mise subito a disposizione tre piccole stanze nella città vecchia. Tu ne eri entusiasta, ricordo. Di quei mobili laccati azzurri, forse lì ancora dagli anni 50, dai ritratti di soldati e tranvieri appesi al muro, delle due finestre che si aprivano sulla piazza. La città, adesso, era veramente nostra. Non mi ero preparato un granché, su quello che avremmo dovuto vedere, visitare. Del resto non c’era bisogno di cercare, di leggere guide, di chiedere. Ogni via, ogni angolo sembrava avere un segreto da scoprire, meritava una sosta, parole tra di noi. Le scritte dei negozi, così difficili da decifrare, tanto che non riuscivamo a capire cosa fosse realmente in vendita. Le birrerie, con i piccoli tavoli sulla via, dove raramente tu trovavi qualcosa che ti piacesse, mentre io mi rimpinzavo ogni volta. E le librerie, i dischi di musica classica così a buon mercato, le pasticcerie, i mercati, i tram con i manovratori in divisa, i musicisti di strada.

Eri felice. Come una bambina correvi sempre avanti, mi prendevi per mano, mi trascinavi. Guarda questo, dai andiamo a vedere quello, corri dai! Io ti seguivo, senza capire che quello che veramente ti faceva sorridere, ti faceva fare tutti quei discorsi, ti illuminava, eravamo noi. Che cominciavamo a conoscerci. Tu ed io, che giravamo senza meta, senza nessuna pretesa, se non quella di guardare insieme tutto quello che ci stava intorno. Abbiamo visto cattedrali dove sono stati incoronati imperatori, quadri di pittori che hanno attraversato e superato i secoli, statue e mausolei di eroi, orologi che mostravano il cammino delle stelle. Ma nulla di tutto questo valeva, poteva valere, le nostre sere. Quando tu ed io guardavamo quella che era diventata la nostra città da una finestra. Quando anch’io, finalmente, riuscivo a capirti, a capire noi. Non non avrei voluto mai andare via,  avrei voluto, invece, ogni sera, ritrovarci qui. Per sentirti raccontare, per raccontare anch’io.

Questa città, la nostra città, sai, è cambiata. Le librerie, adesso, sono diventate fast food, negozi high tech. Le insegne sono ora in inglese, e le code le puoi trovare solo fuori dal caffè che frequentava Kafka. La sinagoga è ancora lì, ma vicino stanno costruendo un centro commerciale. E poi casinò, gelaterie, ristoranti italiani, moda in franchising, sexy shop. Non la riconosceresti più. Ma io continuo a pensare che da qualche parte, in qualche via, in qualche angolo, proprio lì, noi stiamo ancora chiacchierando

Non è giornata

Se tutte le volte che ho scritto “non è giornata”, avessi incassato un euro. offerto da qualche lettore di buona volontà, sarei ricco. Non tanto per la quantità di lettori, quanto per la frequenza della succitata espressione. Perché, in definitiva, non è mai giornata. Perché piove, perché c’è il sole. Perché ho troppo da fare, perché mi annoio. Perché sono solo, perché sono in compagnia. Insomma, per tutto e per niente, anzi, per tutto e niente in contemporanea. Per esempio non è giornata perché non ho niente da fare ma se arriva del lavoro comincio a lamentarmi che non è giornata. E’ evidente che qui si entra in un circolo vizioso. Appena il lavoro sarà finito non sarà comunque giornata e così via. All’infinito. Dovrei pensare, a questo punto, di essere l’uomo più sfortunato del mondo, oppure il depresso perfetto. Marchiato a fuoco dalla dea della sfortuna (esiste, poi?), o soggetto destinato, prima o poi, a comparire su tutte le riviste di psicologia del mondo (e sono certo che non mi piacerà un solo articolo, nemmeno uno). Ma in realtà non è nemmeno così, perché questo mia scarsa simpatia per il mondo e il resto dell’umanità, non assume mai una connotazione passiva. Una cosa, tanto per dire, tipo: “Uffa, ma sempre a me capita”. O ancora meglio: “Non mi piace nulla, non mi piace niente, non so fare niente”. Assolutamente no. La mia misantropia, per esempio, la vivo come qualcosa di dovuto, di necessario. Intendiamoci, non mi sento migliore degli altri, tanto da evitarne la vicinanza spocchia o una supposta superiorità. E nemmeno mi sento inferiore, tanto da sfuggire ogni confronto con gli altri, per paura di rimanerne sconfitto. Semplicemente non mi interessano. E non c’è un motivo particolare. Oppure si, ma non lo so spiegare, mi sfugge, perché oggi non è giornata. Non parliamo poi della mio scetticismo verso qualsiasi attività ludica. Qualsiasi sia la proposta, ancora, non è giornata. Magari domani, ma non oggi. Perché fa caldo, perché fa freddo, perché sono stanco, perché non mi devo stancare, perché non sono capace, perché ho smesso da anni, ecc. Insomma, non mi va. In quanto ai piaceri della gola e non solo, qui esce fuori la mia patologica contrarietà a qualsiasi cosa venga presentata in tavola o bussi alla mia porta. Troppo salato, troppo dolce. Troppo caldo, troppo freddo. Troppo saporito, non sa di niente. Era meglio la birra dell’altra volta, il vino sa di tappo. Ah no, è troppo alta, troppo bassa. Ma è bionda, ma è mora. Parla troppo, non dice una parola. Insomma, no. Anzi, sì ma però. Che il no ha sempre avuto qualcosa di definitivo che non mi è mai piaciuto, sta ha significare che qualcosa non ti è veramente piaciuto, o ti ha dato fastidio. Cosa che potrebbe far ipotizzare che il contrario ti piacerebbe o ti sarebbe perlomeno gradito. E questa è un eventualità che non voglio nemmeno prendere in considerazione. Perché, se si presentasse veramente, allora non potrei più dire che non è giornata. E allora dovrei prendere atto che non tanto dalla sfortuna sono bersagliato, non tanto da qualche forma atavica di depressione sono affetto. Ma che sono un banale, normalissimo, comune, rompicoglioni.

Heimat

Un noto alpinista, ormai più dedito a conferenze e comparsate in feste popolari, se non in comizi politici, piuttosto che a quelle passeggiate a 8000 metri che hanno alimentato la sua leggenda, inserendosi nel dibattito relativo alla concessione della doppia cittadinanza, austriaca oltre che italiani, agli altoatesini, ha buttato lì una curiosa proposta. Il doppio passaporto, diamolo anche ai trentini, dopotutto anche loro hanno difeso la loro patria, la loro heimat.
Ora, se la cosa in effetti mi lusinga, sono appena tornato da Vienna, dove ho scoperto che il tedesco studiato faticosamente nelle scuole dell’ obbligo, lungi dall’essere stato dimenticato, così invece almeno credevo, si è ammantato persino di una pronuncia impeccabile, non posso comunque fare a meno di avere qualche dubbio.
Intanto, perchè solo noi? Trento, Bolzano e poi basta? E l’Ungheria, tanto per dire? I Balcani, la Boemia, la Transilvania ,Gorizia e Gradisca, non erano forse heimat pure loro? Non erano anche loro province di un impero che di fatto racchiudeva la maggior parte dell”Europa? Unite da leggi, istutituzioni comuni? Tanto da darsi, dopo la fine della prima guerra mondiale, costituzioni, pubbliche amministrazioni, codici del tutto simili?
E poi, insomma, se davvero dobbiamo recuperare questa patria, la nostra heimat, sia pure come valore storico, ideale, piuttosto che geografico, non dovremo guardarci indietro e cercare di capire effettivamente come chi eravamo, cosa volevamo, da sudditi dell’imperatore? Perché, dopotutto, quel che si legge sui libri di storia, quelli che da sempre scrivono i vincitori, è che noi non vedevamo l’ora di essere liberati da un giogo insopportabile, da una tirannia, da un iniqua sudditanza. Tanto che ci si racconta che i nostri avi, i nostri bisnonni, erano tutti irredentisti. Col tricolore nascosto in cantina, insieme al ritratto del re savoiardo. Era davvero così? Io so per certo che i miei bisnonni hanno preso a schioppettate gli italiani che venivano a liberarli. Magari non so dire se per reale convincimento o se soltanto per obbedire a un ordine. Ma comunque l’hanno fatto, per poi sorbirsi, non si poteva certo, all’indomani della vittoria, ammettere che i nuovi italiani avevano combattuto, per quattro anni, quelli vecchi, mesi e mesi di confino in qualche località del meridione, a centinaia di chilometri da casa. Poi, per i loro figli, anziché la libertà tanto promessa, l’immigrazione per guadagnarsi il pane.

Intendiamoci, non voglio tornare all’impero, così come non voglio riaccendere la fiamma del nazionalismo che ancora cova in molte minoranze, sparse qua è là per un Europa, ricostruita decine di volte. Minoranze che sognano di un tempo ormai passato, per combattere, anche questa è una guerra, la frustrazione di non essere più parte di qualcosa di più grande. Che lungi dal considerarli, appunto, minoranze, li univa ad altri popoli piuttosto che separarli. Dico solo che quest’idea, l’idea di raggruppare popoli diversi sotto un unica nazionalità, a dispetto delle vicissitudini, delle guerre, delle separazioni, forse, ha un senso. Quello di riunire, e non sotto la bandiera di uno stato, ma quella di un Europa che per secoli ha condiviso, come si diceva, leggi, cultura, istruzione. Un Europa che, appunto, oggi sta andando in pezzi. Un Europa di stati che si dividono, si isolano, si chiudono. Dimenticando che abbiamo tutti una radice comune. E che tutti possiamo definirci europei, prima ancora che italiani, austriaci, tedeschi, ungheresi.

Polaroid

Me ne accorgo soltanto oggi. E’ tanto tempo che non riesco a scrivere, a mettere insieme qualche parola, qualche frase. Per raccontare quel che succede, anzi, quello che mi succede. Scrivere, ho sempre pensato, è un po’ come sviluppare una pellicola. Si, lo so che adesso non si usa più. Ci sono le macchine fotografiche digitali, gli smartphone. Puoi fare tutte le foto che vuoi, rivederle subito, cancellarle se non ti piacciono, farne delle altre. Ma a me piace pensare al vecchio procedimento. Ti guardi attorno, metti a fuoco, scatti. E poi ancora, altri scatti, fino alla fine del rullino. Poi, in una camera oscura, con degli acidi, dei solventi chimici, le tue foto verranno sviluppate. E non assomiglieranno quasi mai a quello che hai visto, puntato attraverso l’obiettivo. Tanto che ne resterai sorpreso, tanto che dovrai spiegare a te e agli altri che cosa hai visto davvero, cosa intendevi davvero raccontare

Ecco, credo di aver scattato molte fotografie, in tutti questi mesi, ma di non averle mai sviluppate. Di aver consumato pellicole su pellicole e di averle poi riposte da qualche parte. Dimenticando di annotare il dove, il quando, il perché. Di questi scatti, di queste immagini. Che sono rimaste lì, insomma, in attesa. Di un senso o meglio, appunto, di un perché. E solo quando finalmente ho trovato il tempo, o meglio, la voglia, mi sono accorto che tutto quello che ho ripreso, fotografato, conservato, non racconta nulla di nuovo. Ma una storia che avevo già dentro, che voglio ancora narrare, non è la prima volta, con altre immagini. Perché non ho ripreso il mondo, ma il mio mondo .Che solo poche  volte riesco comprendere, ma che, il più delle volte, è solo confusione.

E in mezzo a tutta questa confusione, sai, io penso ancora a te. A te che adesso insegni la felicità. Lontano, a est. A te, che forse dirai che tutto questo è infantile. Un po’ come sperare in una vita diversa, da vincere con un biglietto della lotteria. O come le riunioni di classe. Anno, scuola, non fa differenza. Tanto partecipano sempre quelli che ricordi come i più molesti. O forse, moleste, sono proprio queste righe. Come quelle foto che ci scattano di nascosto. Quando non ci avvisano, prima, di sorridere o di fare la faccia intelligente.

La macchina nuova

Vincenzo, quella macchina, la 500, se l’era comprata con i risparmi di una vita. E già pregustava, mentre firmava tutte le carte che il concessionario gli metteva davanti, una dopo l’altra, lo stupore e l’ammirazione dei vicini di casa. Certo, qualcuno di loro aveva già la Vespa, quella strana motocicletta con le ruote piccole, ma, quasi tutti giravano ancora in bicicletta. La sua, sarebbe stata la prima automobile del quartiere. Quando si ritrovò con le chiavi in mano, si ricordò però di una cosa.
– “Senta, ma è difficile da guidare?”
– “Certamente no! E una macchina come tutte le altre. Da quanto tempo ha la patente?”
– “La patente? Quale patente?”
– “Non ce l’ha?”
Il concessionario, allora spiegò ad un allibito Vincenzo, che per guidare un automobile, non solo quella, tutte le automobili, ci voleva la patente. La patente di guida, appunto. Che non era una cosa che bastava solo chiedere, come una carta di identità, un certificato del Comune. Bisognava fare una scuola, dare degli esami, essere promossi.
La macchina gliela portò a casa uno dei meccanici dell’autosalone. E con una maestria che impressionò Vincenzo, fu parcheggiata dentro il locale che fino a ieri usava per tenere tutte le cianfrusaglie che non trovavano posto altrove. Che, finalmente, era diventato un garage a tutti gli effetti. Rimasto solo, Vincenzo, si sedette dietro al volante. Provò a girarlo, non sembrava molto faticoso, guidare non doveva essere poi così difficile. Quasi senza volere, si ritrovò a borbottare brum brum mentre girava quel volante sempre più rapidamente a destra e a sinistra. Sarebbe stato bello, quando l’avrebbe guidata sul serio, ne era sicuro. Poi, tutte le leve e i pulsanti, questo a cosa servirà? E questo? Il clacson lo spaventò, dentro il piccolo locale risuonò amplificato a dismisura. Ancora, dai! Ancora!
L’autoscuola, quella che gli aveva consigliato il meccanico, era vicina alla fermata dell’autobus. La signora tanto gentile gli aveva chiesto di portare delle fotografie, un certificato medico e altri documenti che lui si era procurato durante la settimana. C’era ancora da pagare la prima rata, pazienza, avrebbe fatto qualche piccola economia. E così, ogni giovedì sera, Vincenzo, insieme ad altri, cominciò ad apprendere il significato dei segnali stradali, il funzionamento del motore, come si dovevano usare gli indicatori di direzione (le frecce, suvvia), quando era necessario accendere i fari. Poi, finita la lezione, prima di salire in casa, faceva qualche esercizio in garage. Si fa così, questo è per accendere luci, questo è il tergicristallo. Apriva il cofano, per cercare le candele, lo spinterogeno, il radiatore. La domenica, invece, armato di spugna e stracci, si dava da fare fino a quando le cromature dei paraurti brillavano come specchi e la carrozzeria lucida, più immacolata di un abito da sposa.
E finalmente venne anche il giorno delle esercitazioni di guida. L’istruttore, dopo avergli dato qualche rapida spiegazione, si sedette accanto a lui e gli fece cenno. Andiamo. Vincenzo girò la chiave e il motore, quello vero, si avviò. Forza, la marcia adesso. La macchina si avviò saltellando, Vincenzo, pallido in volto, girandosi verso l’istruttore cominciò a urlare.
– “Adesso? Che faccio, che faccio?”
– “Stia calmo, guardi avanti, E non si preoccupi, ci sono io”
Calma, calma. Ormai la macchina si era avviata e Vincenzo, abbracciato al volante, non sapeva più che pesci pigliare. Di lato cose che si muovevano, davanti una curva
– “Si calmi, le ripeto. Guardi la curva. Adesso giri il volante piano a sinistra”
– “A sinistra? Dov’è la sinistra. Da che parte?”
E girò a destra, proprio contro il muro. Rumore di lamiere, il cofano divelto, il motore ancora girava. L’istruttore scese, scuro in volto.
– “Direi che per oggi basta, non crede? Forse è meglio che ci rivediamo un altra volta”
– “No. Senta, non l’ho fatto apposta. E’ che davvero…”
– “La prossima volta.”
Vincenzo tornò, abbacchiato, a casa. Scese subito in garage. La sua 500 era sempre lì, ferma, ad aspettarlo.
– “Senti, non è andata molto bene, oggi. Non è che ti offendi se aspettiamo ancora un po’? Tanto qui stai bene. Verrò ogni sera, a farti un po’ di compagnia. Scusami tanto, ma non mi sento ancora pronto.”

E niente, sono passati gli anni, ma Vincenzo, a scuola guida, non c’è più tornato. Ogni giorno scende giù in garage, ormai lo chiama così anche lui, si siede al volante e racconta tutta la sua giornata. Progetta viaggi, studia percorsi. Partiremo presto, sai? Qualche volta si diverte ancora a imitare il rombo del motore, brum brum, dai che la strada è libera. La domenica, ancora, è tutta dedicata alla sua regina. La carrozzeria luccica, i tappetini sembrano nuovi. E, credeteci, si sente l’uomo più felice della terra.

L’americano in cantina

Era il novembre del 44, la guerra che sembrava prossima alla fine più di un anno prima, ancora continuava. Con tedeschi che non se ne volevano andare e americani e inglesi che ce la mettevano tutta per farli sloggiare. Il fronte era comunque lontano dal paese, si diceva che gli alleati fossero fermi più a sud, bloccati dietro un fiume. Tutto fermo, insomma. Se non fosse stato per quegli aereoplani che ogni santo giorno venivano a bombardare il ponte della ferrovia, quella che conduceva direttamente al Brennero, quella che i tedeschi usavano per far arrivare rinforzi, cannoni e carri armati, la vita, in paese, sarebbe stata decisamente tranquilla.
Ogni giorno, i bombardieri americani sganciavano tonnellate su tonnellate di bombe su quel piccolo ponte. Piccolo davvero, meno di venti metri a saltare un torrente quasi sempre in secca. Ma era sufficiente colpirlo con almeno uno spezzone, per bloccare tutto il traffico ferroviario verso la Germania. Così, tutte le notti, il plotone di genieri che era accampato in paese, si adoperava per ripararlo in qualche modo. I treni ricominciavano a circolare nelle prime ore del mattino, avanti e indietro. Fino a mezzogiorno, quando le sirene dell’allarme antiaereo ricominciavano a suonare.
Mancavano pochi giorni a Natale, quando uno degli aerei più piccoli, quelli che scortavano i bombardieri con la stella sulla fusoliera, col motore quasi fermo, forse per un guasto, forse colpito da un veicolo tedesco, atterrò nel vigneto del nonno. Strappando fusti e stralci per metri e metri. Il nonno, che si trovava lì per le solite incombenze invernali di ogni contadino che abbia a cuore la sua terra, rimase miracolosamente illeso. Nessuno dei frammenti di metallo staccatisi dall’aereo in quell’atterraggio di fortuna, lo colpì. E passata la paura, pensò bene di sfogare la sua rabbia prendendo a bastonate il pilota, casco di cuoio e giacca con il pelo, che era sbucato fuori dall’abitacolo. Frastornato e arrabbiato quasi quanto lui. Dopo svariate corse tra i vitigni abbattuti, i due, senza più fiato, l’uno di fronte all’altro, avevano cominciato a studiarsi. Il nonno aveva abbassato il bastone, anche perchè si era accorto che l’altro, attaccata alla vita portava una fondina con dentro una grossa pistola. Avevano cercato di scambiare qualche parola, “Io american, americano, tu italiano o german, tedesco?” ” Le mie vigne, mona di un mericano, chi me le paga le vigne?”. E via di questo passo, finché al nonno non era venuta in mente una cosa. Da lì a poco sarebbero arrivati i tedeschi, l’aereo dovevano per forza averlo visto anche loro, atterrare nel campo. E farsi trovare in compagnia di un militare americano non era proprio una buona idea. “Senti, io adesso devo andare, a casa.” “Aiutami, help please, no prisoner, no tedeschi”. Aiutarlo, e come? Non poteva portarselo a casa, se i tedeschi lo venivano a sapere, sul prossimo treno per la Germania avrebbero caricato anche lui. “Per favore, please!” Adesso che la rabbia gli era sbollita, il nonno si era accorto che, una volta tolto casco e occhialoni, quello che aveva davanti era solo un ragazzo spaventato. Senza quel coso di metallo che adesso era piantato, tutto contorto, nel campo, non faceva più paura a nessuno, nemmeno a lui. ” Va bene, andiamo, ma non puoi venire così.” E così lo aveva rivestito con uno dei tabarri che teneva nel capanno degli attrezzi, gli aveva sporcato la faccia e le mani di terra e se l’era tirato dietro. La divisa e tutto il resto dell’armamentario infilati sotto la legna impilata sul carretto. “Spingi, merica. E stai zitto, capito?”
La nonna era quasi svenuta, quando gli aveva raccontato l’accaduto. “Ma sei matto? E dove lo mettiamo questo qui? Ma lo sai che se i tedeschi lo vengono a sapere, ci mettono in prigione tutti quanti?”. “In cantina, lo teniamo in cantina.” E proprio in cantina, tra le botti e i salami appesi, fu alloggiato il mericano. Gli portavano da mangiare due volte al giorno, e facevano a gara, fratelli e sorelle, visto che era facile ricevere in cambio un pezzo di cioccolato o delle gomme da masticare. Parlava tanto il mericano, ma si capiva poco di quello che diceva. I ragazzi si limitavano ad annuire, dopotutto lui li faceva divertire con quelle strane parole e il suo gesticolare. Poi, incassato il premio per il servizio, lo lasciavano di nuovo solo. Ma il giorno di Natale, non si poteva certo lasciarlo solo come un cane, giù, sottoterra. E lo avevano fatto salire, a mangiare con tutta la famiglia il cappone che il nonno aveva ingrassato tutto l’anno. Si erano stupiti, quando era riuscito a rispondere ai loro auguri “Buon Natale, buon Natale”. Anche la nonna, quel giorno, sembrava più tranquilla. La guerra, davvero, sembrava più lontana del solito, e anche i distruttori di ponti, per l’occasione, fecero festa.
Con la seta del paracadute, bello quel tessuto e chi l’aveva mai vista una cosa cosi?, la nonna e la zia avevano confezionato camice e mutande per tutta la famiglia.Dopotutto, senza l’aereo, il mericano non ne aveva più bisogno. Bellissime e comode, quelle camice, peccato non poterle fare vedere a nessuno. Anzi, passate le feste, per quanto povere fossero quelle di quell’anno, bisognava pensare a una soluzione. Certo, ormai era quasi uno di famiglia, anche se abitava in cantina saliva molto spesso a dare una mano in casa, cercava, un po’ alla volta, di imparare l’italiano. Qualche volta, addirittura, il nonno, se l’era portato in campagna a lavorare. Dopotutto, se le vigne erano tutte da ripiantare era colpa sua, che diamine. E poi c’era da smontare quel satanasso di aeroplano ancora lì in mezzo al campo. Con tutta quella lamiera ci si poteva riparare un paio di tetti, di sicuro. Ma erano tutti d’accordo che non poteva restare ancora a lungo con loro. I tranquilli genieri del ponte erano stati raggiunti da un reparto di fanteria della Wehrmacht in riposo dopo mesi passati al fronte. E con questi non si poteva tanto scherzare. Mettevano il naso dappertutto, giravano sempre armati. Qualcosa bisognava fare, per forza. L’idea venne allo zio Giovanni, anche lui soldato, ma nella grande guerra. ” Facile, bisogna mettersi d’accordo coi partigiani.” “I partigiani? E chi li conosce? Chi li ha mai visti?” “Eh, basta dirlo al Griso, lo sanno tutti che lui sta con loro. Persino quelli che stanno dietro al ponte. Ma siccome, grazie a lui, qui non vengono mai a rompere le balle, fanno finta di niente. Piuttosto bisognerà stare attenti a quelli nuovi, hanno certe facce…” Il Griso, avvisato dallo zio, si fece vedere la domenica successiva, dopo messa. Il nonno, dopo aver servito un paio di bicchierini della grappa che, guerra o non guerra, tedeschi o non tedeschi, continuava a distillare di nascosto, fece salire l’americano dalla cantina. “Ah eccolo qui, il mericano ” “Lo sapevi, come…” “Lascia perdere, lo so. Immagino quello che stai per chiedermi. Vuoi che lo restituiamo ai suoi, vero?” “E come si fa?” “Lo faccio venire a prendere da certi amici. Loro lo accompagneranno oltre le linee, che ci vuole? Ti costerà solo qualche bottiglia di vino da dare al sergente degli scavatori. Così, tanto per ringraziamento. Lui l’ha sempre saputo, chi ti tenevi in casa. Si, anche lui.” “Scherzi, vero?” “Ma va, credi davvero che anche loro, come noi, non ne abbiano le scatole piene, di questa guerra? A lui e a tutti i suoi va benissimo così. Finché sono occupati con il loro ponte se ne possono stare tranquilli e aspettare che finisca. Non hanno certo voglia di fastidi. Tipo ufficialetti in cerca di medaglie, capaci di mandarli in giro per tutta la valle, su e giù per le montagne, in cerca dei compagni del tuo americano.” “Ma lui era solo” “Quello lo dici tu. E poi non è detto che a forza di cercare non si trovi davvero qualcuno, magari armato, meglio lasciar perdere. Non conviene a nessuno, a noi e a loro. Comunque va bene, si fa. Ti dirò io, quando”
Vennero a prenderlo un giovedì sera. Faceva molto freddo, era già febbraio. I due venuti ad accompagnarlo portavano il mitra a tracolla e la barba lunga. Ma avevano accettato di buon grado il surrogato di caffè che nonna aveva messo a bollire sopra il fuoco. Erano rimasti un po’ a parlare della guerra con il nonno, mentre i ragazzi osservavano affascinati le armi che i appese insieme ai cappotti. Johnny, il mericano, era nervoso, forse non era del tutto convinto. “Tranquillo, soldatino, ti riporteremo dai tuoi amici. Copriti bene, dovremo attraversare la montagna”. Con lo zaino riempito di pane e salame dalla nonna, i guanti pesanti di lana e il berretto dello zio Giovanni in testa, Johnny il mericano, era partito con loro “Ciao merica, fai attenzione”. Solo un paio di settimane dopo, il Griso, venne a dare notizie. Era andato tutto bene. Il pilota era tornato a casa.

Il mare dentro

A Milano, una volta, c’era il mare. Tanto è vero che ancora ci è rimasto l’Idroscalo. Da lì partivano, sugli enormi SIAI MArchetti, Alida Valli con le sue famose mise, spesso accompagnata da Amedeo Nazzari. I gerarchi in cerca di notorietà, le spie dell’Ovra e la sempre più intraprendente classe industriale brianzola. Che, in tempi in cui l’Ikea era ancora lontana da venire, ambiva a conquistare il mondo con cucine e tinelli da pagare comodamente a rate.

Ma non solo a usi così prosaici, era destinato il mare di Milano. A Segrate, la buona e giudiziosa amministrazione meneghina, aveva realizzato degli stabilimenti balneari per la cittadinanza. Che poteva arrivarci comodamente in tram e, con poca spesa, affittare un ombrellone e una cabina. Ogni fine settimana vi facevano tappa anche le corriere da Bergamo e dalla Valtellina, piene di montanari ansiosi di tuffarsi fra le onde. Nei bar sulla spiaggia, per venire incontro alle loro abitudini, si servivano fiaschi di Valcalepio Rosso e porzioni giganti di pizzoccheri. Alla sicurezza dei bagni provvedevano gli studenti della “Scuola Soccorritori Sant’Ambrogio”. Istituto prestigioso e celebre in tutto il mondo. Le domande di iscrizione, per i pochi posti disponibili, erano migliaia. Inutilmente i bagnini di Rimini avevano tentato di stipulare una convenzione, offrendo in cambio degli animatori. Si erano visti relegare dopo le delegazioni straniere di Miami e di Copacabana.

Nei dintorni, vicino a Peschiera Borromeo, erano sorti ben presto alberghi e resort di classe, progettati dal Gruppo 7, e un casinò, frequentato da ricchi svizzeri provenienti perlopiù da Lugano. Per i meno titolati, le innumerevoli sale da ballo che fiancheggiavano il lungomare. Signore, ragazze debuttanti, tombeur de femme ma anche trombè, potevano ascoltare e danzare la musica del Trio Lescano e di Alberto Rabagliati Per qualche tempo si esibì anche il celeberrimo Natalino Otto, ma ben presto le lamentele di chi non apprezzava quella musica venuta dall’America, il jazz, ebbero la meglio. Natalino si dedicò, allora, a incidere dischi con Gorni Kramer. Ma questa è un altra storia.

Naturalmente, la buona e sempre più giudiziosa amministrazione milanese, promovueva anche gli sport acquatici, Ogni sabato pomeriggio, nel piccolo golfo di Segrate, si tenevano gare di canottaggio e di nuoto. Dove le varie polisportive, la più titolata quella dei tramvieri, si sfidavano in duelli epici in grado di eclissare ogni altra competizione, persino quelle olimpiche. E’ noto, infatti, che il record del mondo dei 100 stile libero, non fu detenuto, fino al 1934, come comunemente si crede, da Johnny Weismuller. Ma da Carlo Boniardi, controllore sulla linea Piazza Duomo – Lambrate, che lo stabilì durante il ponte di Ferragosto del 1930. Non parliamo poi di quanto i nostri canottieri, del Gruppo Vigili Urbani, hanno ridicolizzato gli atleti delle regate Oxford Cambridge, venuti qui da noi per apprendere le tecniche di vogata.

Insomma era bellissimo, il mare di Milano. Ce l’hanno rubato i tedeschi, dopo l’otto settembre. Via le cabine, gli ombrelloni, le balere, gli hotel e anche il casinò. Hanno raccolto tutta la sabbia e con i treni, l’hanno portata a Lubecca. Il golfo di Segrate riempito di terra, spianata poi con i panzer. I bar smontati e trasferiti sul fronte russo, come alloggi ufficiali. E noi, davvero, ci siamo rimasti come quelli della maschèrpa. Adesso, per andare al mare, ci tocca arrivare fino a Rimini. E vuoi mettere le piadine con la cutuleta?

Born to be wild (ma anche no)

Vivi a Milano, ergo ti monti la testa. Sei diventato metropolitano, ti muovi tra il Quadrilatero della Moda e Piazza Lodovica (bel periplo, effimero e paradossi mutuati da Umberto Eco), mangi un tramezzino vicino alla Scala, osservi con indulgenza i giapponesi che, digital camera alla mano, sbagliano tutti i selfie in piazza Duomo. Sei moderno, emancipato, mainstream. Tanto mainstream che il week end al “paesello natio” (tener conto del numero di ricorrenze di tale allocuzione nella letteratura italiana negli ultimi due secoli), ne sei sicuro, sarà sicuramente una noia. Certo, sei nato qui, ma altrove sei andato. A rincorrere, appunto, quello che leggevi sui rotocalchi vent’anni fa. La “Milano da bere”, i concerti allo stadio, le conferenze di Renzo Piano.

E invece non è vero, perché appena arrivato ti raccontano che, complice un raduno di pervicaci amatori di un mezzo, la Vespa, che, siamo seri, sarebbe dovuto sparire secoli fa, schiacciato da scooter giapponesi con più feature che zeri nel prezzo, poco distante dalla casa avita, sta succedendo qualcosa. In un piccolo parco che tu, nato qui, cresciuto qui fino all’età del consenso, non hai mai visto. Sempre chiuso da un cancello, che poco spazio lasciava all’immaginazione.

Insomma, questi pervicaci amatori, che sono (vogliamo chiamargli gli eredi?), di quelli che nei favolosi anni 60 si definivano mood, hanno organizzato la loro festa. Che non è solo quella dello stand delle salamelle, e anche dei wurstel, che qui non passano mai di moda. O la birra. Ma è quella di un piccolo gruppo sul palco. Che suona canzoni, musiche, che ascoltavi tanti anni fa. Quelle che ti hanno accompagnato, appunto, quando sei cresciuto qui. Proprio qui.

E tu, accompagnato da figlia e nipote, ambedue adolescenti, ambedue succubi di Justin Bieber e di cantanti spagnoli che gorgheggiano corazon e deseperacion in quantità industriali, non sai certo spiegargli perché una versione, sia pure sottotono, di “The house of rising sun”, ti emoziona così tanto. Al punto che 50 anni o meno, vorresti agitarti sotto il palco. Non lo sanno, non lo capiscono. Non è MTV e tanto gli basta. E quando, alla fine, parte “Born to be wild” (Dio santissimo, gli Steppenwolf, la Route 66, Kerouac, Steinbeck, Easy Rider, il fantasma di Tom Joad), non sai proprio più cosa raccontargli. Non sei più un selvaggio, un cow boy, sei solo un travet in trasferta. Non stai più vivendo l’avventura che ti sei immaginato, quando l’A4 era davvero la 66. Non fai nemmeno l’autostop, ti sei comprato il telepass. Loro, sanno come si fa, in questo secolo. Tu no.